I segreti della leadership

Ovvero, come dirigere senza diventare una “testa di capo”

Lavorare giorno e notte, sottrarre tempo alla vita privata e alla famiglia, vigilare affinché quei fannulloni dei tuoi dipendenti svolgano decorosamente i compiti che hai loro saggiamente assegnato, comminare premi e sanzioni. Se pensi che questo sia il cuore del tuo mestiere, caro dirigente, mi spiace dirtelo ma sei proprio una “testa di capo”. Non importa se sei l’amministratore delegato di una multinazionale, l’allenatore di una squadra di calcio, il gestore di una pizzeria a taglio, il direttore di un dipartimento universitario: in ogni caso il successo della tua struttura e il tuo personale dipendono soprattutto da come imposti e gestisci il tuo sistema relazionale. Ricorda che essere un capo significa essere una fonte di ispirazione e fiducia, sostenere le persone, guidare con l’esempio, fornire significato al lavoro di tutti e di tutti i giorni, indipendentemente dal ruolo che ciascuno ricopre.

Testa di capo è il titolo dell’ultimo libro di Robert I. Sutton, professore di Ingegneria gestionale all’Università di Stanford. È un saggio dedicato all’arsenale del cattivo capo, dalle forme più sottili e crudeli di mobbing alla pura idiozia. Come dice Sutton «…è facile essere un bastardo matricolato, quando si occupa la scrivania più grande». Nel volume si cerca di far emergere il profilo del “buon capo” dall’analisi di un insieme di cattivi esempi da non imitare. Ne consiglio la lettura a tutti, poiché, come dice l’autore, «la maggior parte di noi ha un capo, oppure è un capo, o entrambe le cose».

Sutton ci spiega «come imparare dai peggiori». Penso sia utile però, per dirigere in modo efficace, acquisire anche alcuni principi teorici, purtroppo poco conosciuti e ancor meno applicati, che possano aiutarci a migliorare le capacità di guida di cui tutti, in misura più o meno elevata, disponiamo: capacità cui ci si riferisce normalmente con il termine leadership. Iniziamo con un po’ di sano realismo. Se siamo diventati “capi”, o comunque abbiamo acquisito una posizione di responsabilità, probabilmente ci siamo battuti per questo; ci siamo confrontati, o persino scontrati, con alcuni colleghi; abbiamo usato tutte le nostre capacità di influenza, qualche volta forse (diciamo la verità) in modo non perfettamente etico. La scalata in qualunque sistema gerarchico non è (per parafrasare un vecchia battuta del presidente Mao) una passeggiata in campagna. Senza nulla togliere al merito, è chiaro che per prevalere abbiamo dovuto essere più determinati e più aggressivi degli altri; ed è inevitabile che lungo il percorso abbiamo imparato a conoscere anche miserie e debolezze della struttura e delle persone che ne fanno parte, accumulando una buona dose di scetticismo e forse anche di cinismo. Tutto ciò è perfettamente normale, così come è normale che talvolta si sia costretti a ricorrere non tanto alla persuasione quanto all’uso spietato del potere gerarchico; come diceva Al Capone «… con un sorriso si fa molta strada, ma con un sorriso e una pistola si va molto più lontano».

Qualunque sia il livello raggiunto nella carriera, tra le tante scelte importanti ce n’è una fondamentale per noi e per coloro che ci circondano. Possiamo metterci nel solco delle “teste di capo” che abbiamo trovato sulla nostra strada, che ci hanno preceduto, che tuttora ci circondano, che magari ancora ci stanno sopra, e batterci per divenire – finalmente – capi o capetti dispotici e arroganti, pensando solo all’interesse personale e, perché no, approfittandone per scaricare sugli altri un po’ delle nostre tensioni o frustrazioni. Oppure, senza rinunciare alle nostre ambizioni, anzi ampliandone la portata, possiamo porci l’obiettivo di lavorare per lasciare ai nostri successori un’organizzazione migliore di quella che abbiamo trovato. Ovviamente questi sono casi estremi e, come sempre, le situazioni reali si collocano nel mezzo. È facile verificare però la generale tendenza verso la prima opzione. Le ragioni sono evidenti: risultati immediati (anche se modesti), sensazione di avere agito con prontezza, scarso coinvolgimento emotivo, soprattutto nessuna necessità di acquisire nuove capacità di relazione. Se tutto va bene in questo modo si riuscirà a mantenere uno standard, ma non sarà mai possibile portare le persone al massimo livello di prestazione; inoltre, il clima organizzativo sarà di generale insoddisfazione e di scarso entusiasmo.  La seconda strada presuppone l’assunzione di un ruolo di leadership, ed è potenzialmente in grado di ottenere il massimo impegno da parte di tutti; purtroppo è oneroso sul piano emotivo, oltre a richiedere un notevole investimento per migliorare la cultura e l’atmosfera e rafforzare il senso di identità e di appartenenza; inoltre, i risultati non sono certi e si manifestano eventualmente solo nel medio-lungo periodo. Sono necessari applicazione e apprendimento continuo; per coloro che non hanno sufficiente motivazione ed interesse le difficoltà da superare appaiono semplicemente insormontabili e lo sforzo necessario può sembrare anche scarsamente compensato da ritorni diretti. Bisogna quindi pensare alla leadership non come a un traguardo da raggiungere, ma come a una via da percorrere. Un percorso infinito che richiede dedizione, pazienza e, anche, umiltà, e che viene ricompensato dallo sviluppo di un sistema relazionale maturo, basato sulla fiducia, sull’entusiasmo e sull’orgoglio: e se è vero che il successo dipende ovviamente da molti fattori esterni, è anche vero che una squadra guidata da una leadership consapevole e sicura è difficile da battere.

Purtroppo il tema della leadership è molto trascurato, anche dalle migliori scuole di management. Gran parte della letteratura sull’argomento è di tipo quasi mistico e fa riferimento a etica comportamentale e valori universali, certo fonti di grande ispirazione, ma poveri di prescrizioni operative. Nell’accezione comune, al contrario, il termine viene erroneamente usato come sinonimo di “capo”, cioè per indicare genericamente la persona che siede al vertice di un partito, di un’azienda, di qualunque organizzazione. La leadership consiste invece nella padronanza e nell’impiego sistematico di capacità che permettono di guidare un gruppo di persone verso il raggiungimento di obiettivi non conseguibili tramite i convenzionali metodi di comando e coordinamento gerarchico. La leadership quindi è una forma di potere. Anzi, è potere allo stato puro, perché implica la capacità di influenzare opinioni e comportamenti delle persone allineandoli con i propri obiettivi. Tuttavia, non ha nulla a che fare con il potere che deriva dalla posizione gerarchica. Se ne parla molto, sia pure in modo impreciso e superficiale, perché nei momenti di crisi, quando bisogna misurarsi con cambiamenti tumultuosi e incalzanti, quando le persone devono operare in condizioni di stress, quando il futuro appare incerto e minaccioso, si avverte di più l’esigenza di sistemi di governance basati sulla leadership, in grado di suscitare “adesione spontanea” e quindi di conciliare il coinvolgimento delle persone con l’efficienza e la tempestività delle decisioni.

Alcune teorie molto accreditate propongono tre tipologie di leadership: carismatica, trasformazionale e transazionale. Esse non riescono però a spiegare una miriade di fenomeni e manifestazioni che possono essere riconosciuti in esempi tratti dalla storia, dal mondo economico e imprenditoriale, e dall’ambiente artistico. Recenti studi hanno permesso di evidenziare che i diversi stili osservabili empiricamente risultano da combinazioni assolutamente individuali e da modalità di utilizzazione assolutamente personali dell’insieme di dieci strumenti fondamentali, che corrispondono ad altrettante abilità che il leader deve sviluppare. I dieci strumenti, che illustrerò in alcuni prossimi editoriali, incidono su quattro aree di intervento: la prima (area simbolica) si riferisce all’esigenza di essere fonte di ispirazione, di catturare e focalizzare l’attenzione delle persone, di fornire interpretazioni dei fatti che riguardano l’organizzazione e delle scelte di fondo che si devono affrontare ai vari livelli; la seconda (area della valorizzazione delle risorse) è relativa alla necessità di cogliere tutte le potenzialità di accrescimento del capitale umano e sociale; la terza (area politica) riguarda la composizione degli interessi, la ricerca creativa di soluzioni ai conflitti, la persuasione, la formazione e il mantenimento di coalizioni e di relazioni; infine la quarta (area strutturale) è orientata alle architetture organizzative, alle strategie, alla progettazione e anche all’operatività delle strutture.

Dedichiamo allora un po’ di tempo ad acquisire, oltre alle necessarie competenze tecniche che caratterizzano la nostra professione, anche queste capacità che, indipendentemente dalla posizione ricoperta sul posto di lavoro, possono incidere positivamente sulle relazioni con gli altri sul piano degli affari, della vita sociale e della famiglia. E che, se siamo dirigenti, o stiamo per diventarlo, ci aiuteranno ad evitare di essere una delle tante “teste di capo”.