ovvero la dimensione strutturale della leadership
«Voglio costruire un’automobile per le famiglie americane. Dovrà essere prodotta con i migliori materiali e la migliore manodopera disponibili sul mercato, e dovrà essere abbastanza a buon mercato perché tutti coloro che abbiano un lavoro decoroso possano averla, per riuscire a godere dei grandi spazi che Dio ci ha dato.»
Questa frase sintetizza la visione di Henry Ford, un leader eccellente nella dimensione strutturale. Per realizzare questa visione Ford sfidò non solo la lobby dei costruttori auto-mobilistici già sul mercato, che volevano im-pedirgli la produzione della sua Modello T, ma anche alcune delle persone più ricche e potenti degli Stati Uniti. Questa battaglia, vinta solo nel 1911, ne fece un eroe molto popolare.
Nei diciannove anni in cui il Modello T restò in produzione ne vennero vendute oltre sedici milioni di unità, circa la metà della produzione mondiale di automobili nello stesso periodo. La produzione era assicurata dall’impianto più avanzato del mondo, che incorporava tutte le più recenti innovazioni tecnologiche, inclusa la catena di montaggio, capace di produrre un’automobile ogni 23 secondi. Ford sfruttò il successo commerciale anche per aumentare le paghe: nel 1914 il salario minimo dei suoi operai era di 5 dollari l’ora, contro una media di 2,34 per l’industria americana dell’auto. Continuò a investire in impianti sempre più grandi e più moderni e a tagliare i prezzi di vendita per favorire la diffusione dell’automobile, tanto da venir portato in tribunale dagli azionisti di minoranza e da essere costretto, nel 1920, ad acquistare tutte le quote azionarie: mai nell’industria americana una sola persona aveva controllato al 100% un’impresa di tali dimensioni.
Ford non era solo un genio della meccanica e un imprenditore, ma un leader che eccelleva sia sotto il profilo strutturale, sia sotto quello simbolico. Sotto il profilo strutturale per la capacità di introdurre prima di altri nuove architetture organizzative, individuandone con chiarezza le implicazioni strategiche: ricercare il profitto non nei prezzi elevati e nei bassi salari, ma nella produzione di massa e nelle conseguenti economie di scala. Sotto il profilo simbolico per la tenacia con cui ha per tutta la vita aderito alla sua visione, che poi è diventata il filo conduttore di quello che sarà definito “il sogno americano”.
Dalla visione di Ford è nata la “società dei consumi”. Prima di allora, infatti, le persone potevano essere collocate con sufficiente aprossimazione in due grandi classi, i produttori e i consumatori, che avevano solo qualche modesta sovrapposizione. Ford contribuì forse più di chiunque altro a modificare questo paradigma, trasformando i produttori in consumatori. Tuttavia, le carenze dal punto di vista politico e delle risorse umane ne provocheranno il declino. Infatti, nel momento in cui la produzione di massa diventa il paradigma comune a tutte le grandi imprese americane, Ford non riesce a fare il salto di qualità verso una struttura organizzativa meno autoritaria, accentrata e paternalistica: nel 1936 la sua azienda sarà solo terza sul mercato americano. Nonostante queste carenze, che sottolineano l’importanza di un’armonica combinazione delle quattro dimensioni della leadership, Henry Ford rimarrà nella storia dei consumi di massa e dell’industria americana come la mente “visionaria” e la forza creativa che ha contribuito in pochi decenni a cambiarne le caratteristiche economiche e sociali.
La dimensione strutturale è importante perché il leader non può limitarsi a governare i pro-cessi di cambiamento guidando le persone verso il conseguimento di nuovi e più desiderabili assetti, ma deve anche fornire gli indirizzi per la progettazione organizzativa del futuro, per le nuove strategie, per i nuovi meccanismi di decisione. Non può quindi ignorare gli aspetti strutturali legati al funzionamento della macchina organizzativa, se non altro perché da essi dipende la prestazione complessiva nel perseguimento della visione e delle strategie. Gli aspetti da considerare sono essenzialmente tre. Il primo, e più ovvio, si riferisce all’ambiente in cui l’organizzazione opera (ad esempio, struttura di mercato, competitori, regolamentazione, norme, tecnologia, ecc.). Il secondo riguarda l’insieme intricato e complesso delle forze interne che condizionano i comportamenti e il funzionamento della struttura e che agiscono in forme e direzioni che possono essere anche parecchio conflittuali e contrastanti. Infatti, prestazioni eccellenti possono essere ottenute solo comprendendone in pieno i meccanismi di azione e le implicazioni operative, e attuando gli interventi opportuni per governarle allineandole al massimo possibile verso gli obiettivi dell’organizzazione. Ciò vale, in particolare, per l’uso sapiente e consapevole della leva gerarchica. Se è vero, infatti, che le gerarchie diventano sempre più appiattite, è anche vero che un giusto livello di potere “legittimo”, cioè proporzionato al ruolo e codificato da regolamenti e norme, conferisce visibilità e contribuisce a generare rispetto. Senza un adeguato livello di autorità formale perde senso persino il concetto di “organizzazione”. Il famoso gangster Al Capone ha ben sintetizzato questa necessità con la frase: “… con un sor-riso si fa molta strada, ma con un sorriso e una pistola si va molto più lontano”.
Il terzo aspetto riguarda la moltitudine di decisioni che vengono continuamente assunte sulla base dei meccanismi, più o meno proceduralizzati, che costituiscono il cervello e il sistema nervoso di un’organizzazione. Quasi sempre i soggetti coinvolti sono numerosi e sono costretti a operare in condizioni di razionalità limitata. Il tipo di interazione che si stabilisce tra tali soggetti contribuisce molto a configurare la soluzione. Le decisioni importanti sono infatti frutto di un lavoro di gruppo e risultano influenzate dalla formazione di coalizioni tra gli stakeholder. In molti di questi casi le tecniche di decisione sviluppate nell’ambito della Ricerca Operativa o della Management Science perdono efficacia dal punto di vista “ottimizzante”. Tali strumenti, infatti, eccellenti per la soluzione di problemi anche di grande complessità e dimensione, purché chiaramente formulabili e con variabili misurabili, assumono spesso, di fronte a decisioni di portata strategica, validità esclusivamente dal punto di vista della produzione di materiali di analisi da porre all’attenzione del decisore, che lavora soprattutto sulla base del suo intuito e della sua esperienza. È nell’ambito di questa tipologia di processi decisionali che diventa importante poter contare su una guida. Metaforicamente si può dire che, come durante una tempesta serve un marinaio che tenga saldo il timone, così in queste circostanze è essenziale la funzione del leader: non è detto che ciò basti ad assicurare la sopravvivenza, ma certo ne aumenta le probabilità.
La progettazione dei meccanismi di decisione è molto importante, perché dalle scelte che essi compiono (o non compiono) dipendono le prestazioni dell’organizzazione. La capacità di misurarsi con la dialettica interna di organi di questo tipo, divenendo figure di riferimento sul piano della persuasione e aggregazione, è fondamentale per l’esercizio di un ruolo di leadership in qualunque contesto.
Occorre anche tenere sotto controllo il numero e la dimensione degli organi decisionali. Infatti, l’influenza del numero di componenti di un qualunque contesto decisionale è stata studiata empiricamente, rilevando come all’aumentare del numero si ha progressivamente non solo una perdita di efficienza (meno decisioni nell’unità di tempo) ma anche una diminuzione della qualità delle decisioni stesse. C. Northcote Parkinson, in un famoso libretto degli anni Sessanta, ha affermato che cinque è il numero massimo oltre il quale cominciano a svilupparsi effetti perversi: dalla difficoltà di stabilire la data delle riunioni, alla sindrome della prima donna, alla formazione di fazioni interne, alla rappresentanza di interessi troppo minuti (che di solito compor-ta pressioni per un ulteriore aumento dei componenti). Proprio a causa dell’eccessivo frazionamento degli interessi rappresentati di-venta più difficile centrare l’attenzione sugli aspetti più rilevanti e finiscono con l’occupare tempo eccessivo questioni assolutamente marginali. Può anche succedere che le persone migliori trovino poco gratificante la partecipazione al processo di decisione e preferiscano dedicarsi ad altre attività che ritengono più produttive. Gli organi preposti si avvitano così in una spirale in cui all’aumento del numero corrisponde anche una diminuzione della qualità dei membri: partecipano solo quelli con forti interessi diretti e/o con meno opportunità alternative. Parkinson, studiando l’evoluzione del numero dei membri di gabinetto in alcuni Paesi, ha anche evidenziato come all’aumento del numero corrisponda un declino di prestigio e influenza.
Così come una leadership esclusivamente strutturale non può mantenersi nel tempo, una carenza strutturale è altrettanto difficile da sostenere e nel medio periodo può comportare seri danni all’organizzazione. Un clamoroso esempio è quello di Mikhail Gorbaciov, eletto nel 1985 Segretario Generale del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, l’incarico più alto nella gerarchia di partito e nel paese. Gorbaciov avvia uno straordinario processo di cambiamento basandosi su due parole d’ordine che avranno eco mondiale: glasnost’ (trasparenza) e perestrojka (ristrutturazione). Questa radicale trasformazione genera anche un sostanziale mutamento nello scenario internazionale, giocando un ruolo fondamentale nel porre fine alla Guerra fredda, arrestando la corsa agli armamenti ed eliminando il rischio di un conflitto nucleare. Il 15 marzo del 1990 il Congresso dei rappresentanti del popolo dell’URSS elegge Gorbaciov Presidente dell’Unione Sovietica. Il 15 ottobre dello stesso anno gli viene assegnato il Premio Nobel per la pace. È, almeno in patria, il culmine della carriera e della popolarità di Gorbaciov. Abilissimo nella dimensione politica e simbolica, Gorbaciov fallisce però nella riorganizzazione concreta del complesso apparato sociale, industriale e militare dell’Unione Sovietica; fallisce anche nella scelta delle persone, e la transizione verso la democrazia e l’economia di mercato si accompagna in Russia a un peggioramento, che assume in alcuni casi aspetti drammatici, delle condizioni di vita, a un aumento della criminalità e alla perdita di prestigio internazionale. Il 25 dicembre del 1991 Gorbaciov rassegna le sue dimissioni da Capo dello Stato. Si ricandiderà nel 1995 alle elezioni presidenziali, ma otterrà solo lo 0,5% dei voti.
Come Henry Ford, Mikhail Gorbaciov è una delle persone che hanno contribuito a cambiare il mondo. È riuscito a tanto in virtù della sua visione, delle eccezionali capacità di comunicazione, di un’incredibile opera di mediazione e persuasione attuata pazientemente all’interno della vetusta e ingessata gerarchia dell’Unione Sovietica per ottenere riforme di portata storica. Infine, ha interpretato e perso-nificato il cambiamento davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, rendendolo credibile anche a livello internazionale. Tut-tavia Gorbaciov, e insieme a lui tutta l’ex
Unione Sovietica, ha pagato le evidenti carenze nelle altre dimensioni della leadership. Ciò, naturalmente, non attenua gli indiscutibili meriti del leader che ha tracciato una nuova via per la sua gente e ha modificato in modo irreversibile il futuro del mondo.