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Neuromarketing

cosa succede nella nostra testa quando facciamo shopping

Come recita il famoso studioso d’affari e neuroni Martin Lindstrom: per fare shopping ci vuole cervello!!! Le teorie di marketing, i focus group, le indagini sui potenziali acquirenti, sono ormai tecniche obsolete. E’ stato, infatti, ampiamente dimostrato che come consumatori scegliamo in base a meccanismi che sfuggono completamente alle leggi del marketing puro e semplice e che molte scelte di acquisto provengono dalla parte meno cosciente del nostro cervello. Ecco allora il neuromarketing: una disciplina a metà strada tra il marke- ting e le neuroscienze alla quale Martin Lindstrom ha dedicato il suo ultimo saggio. Truth and lies about why we buy è diventato in pochi mesi un best-seller negli Stati Uniti d’America ed è il frutto di uno studio durato 4 anni e realizzato in collaborazione con la Oxford University. L’autore racconta come siano sufficienti un particolare tipo di elettroencefalogramma e una risonanza magnetica fun- zionale per rivelare aspetti impensabili del nostro com- portamento quando entriamo in un negozio o abbiamo una somma da spendere. La men- te, infatti, è spesso in condi-
zione di farsi ingannare e utilizzerà processi irrazionali per attuare le sue scelte. Questo spiega perché tante volte torniamo a casa e sco- priamo di aver comprato oggetti che non ci servono o capi che non solo non ci va- lorizzano ma ci stanno, addi- rittura, molto male. Emble- matico è il risultato di un test ormai divenuto celebre. A una serie di persone, di età, condizione sociale e forma- zione diversa, è stato chiesto di scegliere tra due prodotti inventati: il UATAN e il FO. L’85% degli intervistati ha scelto il primo solo ed esclu- sivamente perché si trattava dell’anagramma dell’Autan, il famoso anti-zanzare che il nostro cervello ha ben scol- pito nella memoria. Il neuro- marketing studia, dunque, proprio questi meccanismi di catalogazione e archiviazio- ne in cui è organizzata la nostra testa e spiega come sia assolutamente necessario che la pubblicità scelga di parlare attraverso canali cerebrali emotivi, legati alle emozioni capaci di farci considerare necessario e/o bello anche ciò che non lo è. E’ il caso dei neuroni specchio, respon- sabili di tante delusioni. Si tratta di veri e propri tessuti nervosi che attivandosi crea- no in noi la sensazione di poter vivere ciò che, in real- tà, si sta solo guardando. Se, ad esempio, vediamo una donna estremamente affasci- nante indossare un capo vio-
la, saremo tentati di acquistar- ne uno analogo anche se il viola contrasta in modo inde- gno con la nostra carnagione. Dietro a tali scelte errate non si nasconde solo l’inconscio desiderio di essere altro da sé ma anche una serie di mecca- nismi di sopravvivenza, sicu- rezza e riproduzione. Acquistiamo oggetti e indos- siamo abiti non solo per ripa- rarci dal freddo ma anche per il bisogno atavico che ogni essere umano ha di piacere, di inserirsi in un contesto, di atti- rare un compagno: bisogni primari che lo shopping soddi- sfa pienamente. Pensiamo ai Suv: macchine enormi, molto costose, difficili da parcheg- giare che tuttavia hanno un numero altissimo di acquirenti. Perché?

Perché curano, negli uomini, l’esigenza profonda di essere o apparire forti e, nelle donne, la necessità di sentirsi protette e al tempo stesse sicure di sé. La decisione non è razionale: i neuroscienziati spiegano che il 70% degli acquisti fatti sono pilotati dal cervello primitivo, dal bisogno intrinseco di pro- vare soddisfazione nel posse- dere qualcosa, anche se non serve, spiegando, al contempo, perché ormai la maggior parte della pubblicità non funzioni: dei nuovi marchi lanciati sul mercato, 9 su 10 falliscono dopo i primi 3 mesi.

Ma quale può essere la soluzione? La sensorialità, ri- sponde Lindstrom. «Gran parte della comunicazione si concentra sui messaggi visi- vi, ogni società cerca di co- struire un logo efficace, pre- potente […] Ma un brand non è un logo, è quel che gli sta intorno, le emozioni che sug- gerisce. In futuro, se le azien- de vorranno vendere bene, dovranno far leva su approcci sensoriali, stimolare tutti i sensi. Nello stand del caffè di un supermarket ci dovrà esse- re il rumore della moka, e l’aroma, o un contenitore dove poter toccare i chicchi: così il consumatore potrà vivere per un paio di secondi la “sensazione del caffè”». Dunque le zone sensoriali di tipo immersivo costituiscono la prossima frontiera nella vendita al dettaglio. E’ già successo nel mondo del turi- smo in cui la Singapore Airli- nes non solo seleziona il per- sonale in base a canoni esteti- ci ben precisi, cura l’abbiglia- mento e l’arredamento ma ha anche fatto in modo che il profumo dei fazzolettini di- stribuiti durante il volo sia lo stesso che viene spruzzato all’interno delle cabine solle- ticando i canali sensoriali dei propri passeggeri.

Dunque se avete comprato l‘ennesimo rossetto pur avendone dieci ancora intonsi o l’ultimo modello di cellulare pur avendone ricevuti due a Natale sappiate che non è colpa vostra ma del cervello primitivo e che tutto sommato i nostri gesti hanno anche una funzione sociale: far girare l’economia.

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