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Il vecchio e il nuovo

Anche in questo numero di “Match Point” vorrei trattare un argomento che mi è stato ispirato dalla lettura del Manuale di direzione d’impresa curato da Agostino La Bella e Guendalina Capece, che è possibile acquistare in tutte le migliori librerie italiane. In particolare, mi soffermerò su un tema trattato specificamente nel capitolo “Creatività, innovazione e sviluppo” di Paola Pasqualino, l’innovazione, vista come il risultato dei processi di creazione e perfezionamento che avvengono all’interno delle imprese e che permettono loro di costruire, mantenere e rafforzare il proprio vantaggio competitivo. Per sviscerare questa tematica, prenderò spunto da alcuni film che descrivono l’innovazione in settori molto diversi fra loro, caratterizzati anche da una specifica organizzazione del processo innovativo.

Vorrei partire con l’analisi di uno dei settori, quello cinematografico, che è fra quelli in cui l’innovazione svolge un ruolo più decisivo, visto che le case di produzione devono buona parte del loro fatturato ai nuovi prodotti che lanciano quotidianamente. Per raccontare come avviene il processo di sviluppo dei nuovi prodotti in questo settore, è utile ripescare uno dei film più amari su Hollywood, ossia I protagonisti di Robert Altman. Questo film descrive, con una forte vena satirica, la modalità con cui operano i produttori esecutivi hollywoodiani, incarnati dal cinico Griffin Mill (Tim Robbins). Consapevole del fatto che, dei cinquantamila soggetti che gli vengono proposti ogni anno, dovrà selezionarne in media solo dodici, Griffin ha stabilito una modalità precisa con cui devono essere presentati i soggetti – gli sceneggiatori hanno a disposizione non più di venticinque parole – e soprattutto i criteri con cui va fatta la selezione.

In questo senso, Griffin ritiene che un film, per avere successo, debba necessariamente contenere dodici elementi, di cui però rivela solo i primi otto: suspense, risate, violenza, speranza, cuore, nudo, sesso e, soprattutto, lieto fine. Queste regole di comportamento sono, per certi versi, il risultato dei ritmi e dell’estrema specializzazione che caratterizzano il processo di innovazione nell’industria del cinema; infatti, il produttore esecutivo si occupa solo della fase di selezione dei progetti, la cui generazione è affidata agli sceneggiatori, mentre la realizzazione avviene sotto la guida del regista. Questa suddivisione di ruoli viene messa in dubbio dall’unico personaggio che può rivaleggiare, in termini di cinismo, con Griffin, ossia il suo collega produttore Larry Levy (Peter Gallagher), il quale arriva a teorizzare l’inutilità degli sceneggiatori per la realizzazione dei soggetti, che potrebbe essere costruiti direttamente a partire dalle notizie dei giornali. Quest’ultimo, in so- stanza, auspica che anche questa fase venga internalizzata dalle case di produzione, avvicinando il processo di sviluppo di nuovi prodotti a quanto avviene in altri settori, in cui viene realizzato interamente all’interno della medesima organizzazione.

Uno dei settori caratterizzati da una simile strutturazione del processo di sviluppo dei nuovi prodotti è quello della produzione di giocattoli che viene descritto nel film Mister Hula Hoop di Joel ed Ethan Coen. I due fratelli registi ricostruiscono la vicenda dell’invenzione dell’hula hoop, ambientandola a fine anni ’50 e attribuendola a un fattorino Norville Barnes (Tim Robbins) che, a causa di una losca manovra del Consiglio di Amministrazione, viene catapultato alla guida della Hudsucker Industries. Il film non intende fare una descrizione realistica della vicenda – che è, peraltro, parzialmente irrealistica, dal momento che l’invenzione dell’hula hoop può essere fatta risalire addirittura agli antichi Egizi – quanto dare un quadro grottesco del capitalismo americano e del ruolo ricoperto dallo sviluppo di nuovi prodotti. In questo senso, il film propone una visione bizzarra di tutte le fasi di sviluppo dell’hula hoop, dall’approvazione del progetto da parte del Consiglio di Amministrazione – con i consiglieri che pongono domande del tipo: «Ci sono delle regole?», «Possono giocarci più persone?», ecc. – alla scelta del nome – con i creativi che si lanciano in una serie di proposte ridicole, come “Giragirapanza”, “Saturnello”, ecc. – fino alla scelta del prezzo – con una sfilza di esperti che calcolano il costo unitario dell’oggetto e fanno una proposta di prezzo, che viene infine modificata con un semplice, incerto, tratto di penna – il tutto in un vortice di carte e timbri, tipico del livello di burocrazia della grande impresa degli anni ’50. Lo stesso processo di adozione del nuovo prodotto da parte dei consumatori assume tinte fortemente grottesche, in una scena, scandita dalla Sabre Dance di Chačaturjan, che mostra come l’iniziale scarso appeal riscontrato dall’hula hoop, accompagnato da un’inesorabile discesa del prezzo di vendita, venga del tutto stravolto dall’azione di un bambino, un vero e proprio opinion leader, che comincia a utilizzarlo e scatena l’imitazione da parte dei suoi compagni di giochi. Nel seguito, Mister Hula Hoop mostra anche come il processo di sviluppo di nuovi prodotti possa gradualmente decadere, se vengono per- si gli stimoli che avevano generato l’innovazione. Così, Barnes prima si accontenta di lanciare innovazioni incrementali – come un hula hoop per taglie forti, uno a batterie per la terza età e per i pigri, uno con molta sabbia all’interno per i duri d’orecchio – poi entra in una vera e propria crisi creativa, che lo porta anche a non valutare la portata innovativa della “cannuccia pieghevole” proposta dal suo ascensorista. In sostanza, Barnes diventa affetto dai tipici blocchi, di natura emotiva – a causa della perdita di motivazione dovuta al successo ottenuto – e percettiva – visto che non riesce a inquadrare il proprio ascensorista come un soggetto capace di generare innovazione – che portano spesso alla fine dell’innovazione.

In altri casi, i blocchi all’innovazione possono avere una natura culturale, a causa di modelli di riferimento tradizionali che funzionano ab- bastanza bene, per i quali il singolo, o la sua comunità, non avvertono la necessità di un cambiamento. Un esempio di blocco culturale è quello che porta il formicaio a non accettare le invenzioni proposte da Flik, in A bug’s life di John Lasseter e Andrew Stanton; infatti, nonostante le proposte del protagonista possano garantire un’innovazione di processo nella raccolta di cibo, con un rilevante aumento della produttività, esse vengono rifiutate perché, come di- ce un caposqua- dra: «Effettuiamo il raccolto nello stesso modo, da quando ero in bozzolo!». Ulteriori blocchi all’innovazione possono provenire dal contesto competitivo in cui l’impresa opera, specialmente quando una start up si affaccia in un mercato consolidato, introducendo un prodotto che minaccia di sconvolgere gli equilibri esistenti. Una vicenda simile è quella raccontata, a partire da una storia vera, in Tucker – Un uomo, il suo sogno di Francis Ford Coppola. Il film racconta l’epopea di Preston Tucker (Jeff Bridges), un geniale inventore che nel secondo dopoguerra sviluppò e produsse un’auto dotata di un design innovativo, vetri infrangibili, cinture di sicurezza, motore posteriore a iniezione, fari direzionabili, e altro ancora. Un prodotto simile andava incontro i bisogni latenti dei consumatori americani, come testimoniano le migliaia di lettere ricevute da Tucker dopo un solo annuncio pubblicitario – oltre al fatto che molte delle sue innovazioni vennero successivamente introdotte anche dalle altre case automobilistiche – ma dovette scontrarsi con i problemi di ingegnerizzazione del prototipo, per cui molte innovazioni vennero accantonate o ridimensionate, ma soprattutto con l’ostilità delle grandi case automobilistiche che dominavano il mercato e che, anche attraverso appoggi politici, riuscirono a bloccare la Tucker dopo la produzione di soli cinquanta esemplari.

Se il contesto competitivo può talvolta determinare un freno all’innovazione, in altri casi esso può stimolarla al punto che un’impresa può essere disposta a sviluppare prodotti addirittura dannosi per la società, pur di riuscire a tener testa ai concorrenti. Un esempio di una simile guerra per l’innovazione è raccontata nel bellissimo The prestige di Christopher Nolan, in cui due illusionisti, Robert Angier (Hugh Jackman) e Alfred Borden (Christian Bale), si sfidano a colpi di nuovi numeri per ottenere il favore del pubblico e, soprattutto, per poter rivendicare la propria supremazia rispetto al rivale. Questa guerra, che non esclude inganni, furti, tradimenti e sequestri, porterà Angier a rivolgersi al grande scienziato Nikola Tesla (David Bowie), pur di avere a disposizione un numero che possa competere con quello del “trasporto umano” realizzato dal suo avversario. Tesla riuscirà a soddisfare l’ambizione di Angier, ma attraverso un apparecchio pericoloso e terribile, che lo porterà alla distruzione…