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Irresistibili emozioni

La chiave principale per lo sviluppo e il mantenimento di un buon sistema relazionale consiste nella capacità di generare negli interlocutori stati emozionali positivi. Non è facile: nonostante la familiarità che tutti abbiamo con emozioni di varia natura, spesso non riusciamo a comprenderle e spiegarle e tantomeno a controllarle. Le emozioni infatti sono fenomeni di grande complessità che si manifestano sul piano psicologico, biologico, motivazionale e sociale. Sul piano psicologico influenzano ciò che proviamo come sentimenti soggettivi in determinate occasioni: rabbia, gioia, felicità, ansia, tristezza. Sul piano biologico determinano reazioni psico-fisiche volte a liberare energie e a preparare nervi e muscoli a una risposta adeguata allo stimolo ricevuto. Dal punto di vista motivazionale le emozioni spingono ad agire canalizzando le energie liberate verso il raggiungimento di uno scopo: ad esempio la rabbia crea il desiderio di agire secondo modalità diverse da quelle cui ricorreremmo in altre situazioni, per esempio battendoci contro un nemico, attaccando fisicamente un avversario, protestando per una vera o presunta ingiustizia. Infine, le emozioni sono fenomeni sociali in quanto determinano la tipologia e l’intensità dei segnali che trasmettiamo ad altri con l’espressione del viso, la postura, l’atteggiamento del corpo, i movimenti degli occhi, il tono di voce. Gli aspetti comunicativi delle emozioni rendono almeno parzialmente pubbliche le nostre esperienze private. La figura 1 riporta graficamente queste quattro dimensioni e rappresenta simbolicamente come esse siano collegate tra loro e come vengano attivate da qualche significativo evento o esperienza.

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Fig. 1: le quattro dimensioni dell’emozione

Le emozioni sono motivatori potenti e devono essere manipolate con molta cautela. Ma proprio per questo se riusciamo a interpretarle, gestirle e viverle in modo ottimale saremo considerati “irresistibili”. Pensiamoci: noi stiamo bene con le persone che ci fanno sentire bene, cioè con coloro che con il comportamento, le parole, l’atteggiamento sono capaci di generare stati emozionali positivi. Ci piacciono le persone che portano entusiasmo e che riescono a trasmetterlo. E se riusciamo a generare questa sensazione in modo ricorrente si svilupperà gradualmente un’associazione mentale con la nostra immagine, oltre che un feedback positivo che ci renderà sempre più facile entrare in sintonia.

I principi da seguire sono tanto semplici da capire quanto purtroppo difficili da applicare. In primo luogo le persone che ci fanno star bene hanno capacità di connessione empatica.

Ci danno l’impressione che ci capiscono, che non ci giudicano, che sono attente ai nostri sentimenti, ci ispirano fiducia e desiderio di condivisione. Connessione empatica vuol dire focalizzazione sul mondo interiore dell’inter-locutore, percezione delle spie emozionali, attenzione ai segnali non verbali e comprensione della sua mappa mentale, senza lasciarsi guidare dai propri schemi di attribuzione di significato. Richiede una sensibilità molto fine e rara e una non comune maturità emotiva. Questo approccio non significa gentilezza a tutti i costi, disponibilità assoluta o ipocrisia: significa solo accettazione dei valori e dei filtri attraverso i quali il nostro interlocutore interpreta la realtà, senza alcuna pretesa di giudizio o di superiorità intellettuale o morale. In questo modo potremo porgere i nostri argomenti senza urtare inutilmente suscettibilità o entrare in contrasto con convinzioni o valori. Potremo inoltre far leva, ove possibile, sulle percezioni e sugli schemi mentali che risultassero allineati con i nostri obiettivi. E infine, se ritenuto necessario, una volta stabilita la sintonia e il clima di fiducia, sarà più facile svolgere un’azione di persuasione per modificare l’atteggiamento mentale del nostro interlocutore.

Un’altra capacità da sviluppare è quella di affabulazione. In tutta la storia dell’uomo i racconti hanno giocato un ruolo importante che va dalle favole dei bambini all’intratteni-mento, dall’educazione al sacro. Questo perché i racconti ci aiutano a sognare, ma non solo. Ci danno ispirazione per risolvere i problemi, per i nostri comportamenti, ci aiutano a evidenziare un punto di vista, a veicolare un’idea, a sottolineare valori. Se ben formulate e ben raccontate hanno una valenza ipnotica: come nella leggenda del pifferaio magico, nessuno può resistere a un cantastorie. In effetti, la capacità di inventare e raccontare storie è una caratteristica unica della nostra mente: si dice che alcuni scienziati impegnati nel campo dell’intelligenza artificiale chiesero al loro supercomputer una stima del tempo necessario per arrivare a simulare il pensiero umano. Con loro grande sorpresa il computer sospese ogni altro compito, bloccò tutte le unità di input e iniziò l’elaborazione impegnando tutte le sue risorse. Dopo molte ore, quando ormai gli scienziati erano convinti di un crash definitivo del sistema, un bip richiamò la loro l’attenzione e su un display apparve la risposta, che cominciava così: «La vostra domanda mi fa venire in mente una storia…». Quindi impariamo a raccontare storie e a introdurle con garbo nelle conversazioni. Facciamo attenzione a renderle appropriate al contesto, alla lunghezza, alla sensibilità degli ascoltatori, alle emozioni (sempre positive!) che vogliamo suscitare e all’eventuale messaggio che vogliamo trasmettere. Ma dove troviamo le storie? Ovunque, basta ispirarsi: giornali, tv, libri, costituiscono uno stimolo continuo per la nostra fantasia. Creiamo il nostro libro di racconti, e teniamolo pronto!

Teniamo presente che non riusciremo mai a catturare il centro dell’attenzione se non abbiamo fiducia in noi stessi. È evidente che le nostre aspettative sul futuro, e sulla capacità di conseguire i nostri obiettivi facendo fronte con successo alle diverse possibili situazioni, hanno importanti implicazioni motivazionali e relazionali. Immaginiamo uno studente convinto di non riuscire a superare gli esami: quale potrà mai essere la sua prestazione? E come ci comportiamo con un conoscente, se siamo convinti di essergli antipatici? O quanto potrebbe essere goffo il nostro approccio verso un potenziale partner se siamo sicuri di essere respinti? E quali conseguenze comportamentali potrebbe avere la convinzione che tutti coloro che ci circondano siano egoisti, aggressivi e pronti a darci fregature? Impariamo quindi a credere nelle nostre capacità e nelle nostre competenze; convinciamoci di essere irresistibili; convinciamoci che ciò che facciamo è importante e che lo facciamo bene e con dignità. Albert Bandura ha introdotto il concetto di “autoefficacia”, variabile motivazionale che determina il grado di mantenimento delle nostre abilità anche in condizioni particolarmente avverse. Bassi livelli di autoefficacia generano un sentimento di impotenza, ovvero la convinzione che il proprio comportamento non ha nessun effetto sul risultato che si cerca di ottenere. Ciò comporta un atteggiamento di passività determinato da un deficit motivazionale (caduta della volontà di agire), un deficit di apprendimento (riduzione della capacità di imparare dai fallimenti ciò che serve per rimuoverli) e infine un deficit emotivo per il quale le emozioni che mobilitano energia e provocano volontà di reagire vengono sostituite da apatia, depressione, stanchezza, disaffezione, letargia. La sensazione di impotenza si genera sia dal verificarsi oggettivo e ripetuto di contingenze negative, sia, soprattutto, su base cognitiva, cioè attraverso l’interpretazione che ne viene data.

Le convinzioni di autoefficacia possono deliberatamente essere acquisite o modificate. Il primo passo è quello di crearsi un modello di ruolo da impersonare; possiamo derivarlo dall’osservazione di personalità che ci hanno colpito, o anche inventarlo in tutto o in parte. La sicurezza si acquista anche e soprattutto con la pratica: quindi evitiamo improvvisazioni ed esercitiamoci con pazienza e determinazione, curando i minimi particolari, in tutto ciò che facciamo. Qualunque siano il nostro ruolo e i nostri compiti, è importante assolverli con la massima precisione, impegno e naturalezza. Alleniamoci quindi a muoverci con disinvoltura, a dimostrare entusiasmo e serenità, a dare l’impressione di padroneggiare le situazioni e lo spazio che ci circonda.

Spesso ciò che provoca insicurezza è il timore di interagire con gli altri o, meglio, di non ricevere, in tali interazioni, la giusta considerazione o addirittura di essere respinti del tutto. Non è piacevole percepire di essere sottostimati o, peggio, non considerati; tuttavia, la costruzione di qualunque relazione richiede tempo e non dobbiamo quindi essere spaventati dall’eventuale freddezza iniziale. Questa è del tutto normale: mettiamo quindi in conto un po’ di “attrito di primo distacco” e, senza essere troppo insistenti, non arrendiamoci al primo insuccesso.

Infine, l’ultimo punto, non meno importante: le emozioni e gli stati d’animo sono contagiosi. Quindi è necessario mantenere un atteggiamento mentale positivo, abbandonando sentimenti negativi come rabbia, rancori, invidie, gelosie. Impariamo a perdonare, non per altruismo, ma per noi stessi; perdonare non significa rinunciare ai propri diritti, interessi, valori: significa solo affermarli e difenderli con serenità e senza astio, e quindi in modo molto più efficace. E ricordiamo che le nostre convinzioni e le nostre emozioni non dipendono dalla realtà, ma dal modo con cui la interpretiamo. È la nostra mente che definisce i contorni e il significato delle esperienze, come dimostra un esempio, tratto da un famoso libro della scuola di negoziazione di Harvard relativo alla percezione del proprio ruolo nell’ambiente di lavoro.

Consideriamo due cameriere, Maria e Luisa, che lavorano nello stesso ristorante per mantenersi agli studi, entrambe con l’ambizione di divenire scrittrici. Luisa è annoiata da questo lavoro che trova estenuante e noioso. Nelle pause quotidiane si ritira nel suo piccolo appartamento e prova a scrivere, senza però riuscire ad essere molto produttiva; anzi, è talmente stanca che la maggior parte delle volte si addormenta senza neanche accorgersene. Al mattino, prima del lavoro, ha diverse ore libere, che sfrutta sedendosi al computer e cercando di concentrarsi sui suoi personaggi: ma questi stentano a prendere vita e la trama rimane debole e poco realistica.

Maria trova il lavoro di cameriera duro ed estenuante, ma non noioso. Le piace osservare attentamente le persone che serve, immaginandole come potenziali personaggi delle sue storie. Ha sempre in tasca un blocco su cui annota le caratteristiche che più la colpiscono, oltre ad alcuni brani di conversazione che le sembrano particolarmente interessanti; cerca anche di decifrare le espressioni e indovinare i pensieri dei suoi clienti, e fantastica sulla loro vita privata. Come Luisa, anche Maria usa tutto il tempo libero per scrivere; a differenza di Luisa, però, le riesce facile, utilizzando le osservazioni quotidiane, infondere vita e realismo nei suoi personaggi. Appena ha un po’ di tempo lavora anche a ordinare ed espandere i suoi appunti, classificando e sottolineando ciò che ha trovato più stimolante nella giornata. Non solo il suo manoscritto prende velocemente forma, ma anche la sua reputazione di attenzione e simpatia si afferma sempre di più tra i clienti. Maria fa la cameriera, ma vede il suo lavoro non tanto come una prigione quanto come un fonte sempre nuova di ispirazione.

Come Maria, abbiamo tutti il potere di interpretare e dare forma al nostro ruolo in modo da trarne autostima e soddisfazione. Forgiare in modo positivo le nostre emozioni è un passo essenziale per “catturare” l’attenzione, la stima e la simpatia degli altri.

Riferimenti

  • A. Bandura (1988) Self-efficacy conception of anxiety. Anxiety Research, 1, 77-98.
  • R. Fisher, D. Shapiro (2005) Beyond reason. Using emotions as you negotiate, Viking, Penguin Goup.
  • A. La Bella e A. la Bella (2011) Convincere e motivare. Scienza e tecnica della persuasione, Angeli, Milano.