Nella dinamica complessa dei mercati moderni, gli asset intangibili che le imprese posseggono diventano spesso gli elementi distintivi che consentono di ottenere un proprio vantaggio competitivo. Si intendono con questo termine tutte quelle dotazioni di carattere non fisico o puramente contabile, purtuttavia in grado di generare valore per gli azionisti, nel tempo.
Tra gli asset intangibili a disposizione di un’impresa vi è spesso il marchio, che caratterizza prodotti e servizi offerti, rivestendo un ruolo fondamentale. Infatti, è il marchio stesso che spesso guida i consumatori nelle loro scelte di acquisto e che sovente consente di discriminare tra prodotti di per sé molto simili. L’immagine di un brand può influenzare il consumatore veicolando attributi, positivi o negativi, in relazione, per esempio, alla qualità dei prodotti offerti, all’affidabilità ed alla storia d’impresa, ai valori a questa associabili. Simili aspetti vengono altresì accentuati quando i beni offerti presentano tratti più eterei e caratteristiche meno definibili in modo oggettivo (si pensi ad esempio al valore riconosciuto al design di un abito da sera).
Un nostro recente studio[1], si è posto il problema della misurazione del valore dei brand, attraverso una metodologia – l’Analytic Hierarchy Process – che consente di tradurre i giudizi verbali, non oggettivi, dei consumatori, in vettori di peso matematicamente definiti. Da questa indagine emerge chiaramente quali siano, secondo il mercato, i principali determinanti del valore intangibile dei brand. I risultati enfatizzano l’importanza del mantenere una buona reputazione aziendale nel tempo, attraverso: un’elevata qualità di prodotti e servizi offerti, un’immagine positiva che derivi dal buon operato dei top-manager e un servizio post vendita efficace e affidabile. Nondimeno, i consumatori desiderano che i brand scelti siano emotivamente in linea con i loro valori personali; essi cercano un dialogo con le aziende produttrici, che dovrebbero tenere in alta considerazione i feedback ricevuti e i bisogni espressi.
L’alta rilevanza dell’elemento
valoriale nelle scelte di consumo, pone dunque l’accento su una prospettiva
sociologica che troppo spesso viene trascurata nelle fasi di ideazione e
sviluppo di un nuovo prodotto. Le scelte di acquisto diventano ora un fatto
sociale, più che la risposta ad un bisogno specifico. Tutto è più evidente se
si analizzano i comportamenti dei teenagers di adesso, in comparazione con
quelli di coloro che sono vissuti nei decenni precedenti; ci si accorge subito
come oggetti dapprima superflui (quali ad esempio cinema, uscite serali,
abbigliamento e accessori) diventano ora imprescindibilmente necessari per
condurre un’esistenza normale, ovvero
per farsi accettare, riconoscere e rispettare dai coetanei. Ne sono un esempio
la necessità di possedere l’ultimissima versione aggiornata di cellulare o ipad
e l’arrivo delle bimbe-donne. “Ciò
che davvero conta [adesso] è il momento dell’acquisizione, non l’amicizia
durevole [con l’oggetto acquistato]. […] Gli oggetti passano di moda con la
stessa rapidità con cui si affacciano al mercato. […] E’ lo stile che occorre
mantenere sempre vivo, non i suoi accessori.”[2]
Ecco quindi come i marchi possono efficacemente guidare le scelte di acquisto,
consentendo al consumatore di rappresentare un pezzo della sua identità
individuale. Più nello specifico, è la transizione dall’epoca moderna a quella
post-moderna che ha svuotato lo spazio pubblico da riferimenti normativi e
culturali che strutturavano le identità di ciascuno. Il lavoro si presentava
come una delle principali fonti di legittimazione sociale. Ora, invece, non si è
più unicamente definibili come “l’avvocato” o “il dottore” poiché le nostre
identità complesse si caricano di numerose sfaccettature; avremo quindi “il
dottore, buddista, amante della subacquea, che segue una dieta vegana e che
guida una Harley Davidson”. La condizione sociale che si vive oggi è diventata
più fluida, meno vincolante, una modernità
liquida – dalla definizione di Bauman
– dove i contenitori solidi dell’identità collettiva si dissolvono, per
lasciare spazio a realtà individuali meno determinate, più labili, che hanno
una necessità costante di essere ricreate; non è quindi più sostenibile l’idea
di una traiettoria esistenziale che rimanga costante per tutto il corso della
vita di un individuo. E questa incessante definizione del proprio sé richiede
uno sforzo non da poco. Dahrendorf[3]
parla delle diverse combinazioni tra opzioni
e legature societarie, dove le prime sono opportunità di azione che
acquistano senso in virtù delle seconde, ovvero di legami di appartenenza
forti, scaturenti da specifiche relazioni sociali. Le legature permettevano di
ordinare le opzioni fissando criteri di rilevanza, scartando cioè quelle vuote
e prive di significato. Le prospettive individuali, dunque, prendevano sostanza
in funzione del quadro di valori in cui erano inserite. Valori, legature, che ora
si indeboliscono nell’atteggiamento post-moderno, rischiando che “tutto vada
bene” e che quindi vi sia una sostanziale indifferenza tra le opzioni, che di
contro si moltiplicano. L’individuo vive tutto questo con un deficit di valori
e socialità, attraverso un sé più flessibile, ma meno stabile; ciascuno si
sforza ora di costruire la sua identità, anche mediante le scelte di consumo, ricercando
“soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”[4].
Siamo liberi di creare noi stessi a patto di pagarne il prezzo. Ancora un volta
quindi, il consumo assume un forte aspetto identitario, le cose che compriamo
hanno un loro linguaggio e comunicano la nostra individualità a noi e agli
altri; i brand in questo contesto portano con sé qualità ed attributi che
diventano parte integrante del linguaggio
delle cose. “Siamo stati convinti del fatto che se non ci terremo al passo
con le ultime tendenze la nostra vita sia destinata a fallire. […] Acquistiamo
oggetti per comunicare ciò che vogliamo essere e cosa desideriamo gli altri
pensino di noi”[5].
[1] Battistoni, E., Fronzetti Colladon, A., & Mercorelli, G. (2013). Prominent determinants of consumer-based brand equity. International Journal of Engineering Business Management, 5(25), 1-8.
[2] Bauman, Z. (2012). Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (p. 212). Roma-Bari: Laterza.
[3] Dahrendorf, R. (1979). Lebenschancen. Anläufe zur sozialen und politischen Theorie (p. 240). Frankfurt: Suhrkamp.
[4] Beck, U. (1992). Risk Society: Towards a New Modernity (p. 260). London: Sage.
[5] Lawson, N. (2009). All consuming (p. 256). London: Penguin Books.