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Dai compromessi del Six Sigma alla discontinuità del TRIZ

Innovare, innovare, innovare! Non si parla d’altro. Il Mercato impone alle Aziende di trovare continuamente nuove strade per tenere sempre alto il proprio livello di competitività. Lo stesso Einstein sosteneva che «è da folli pensare di fare sempre la stessa cosa e ottenere un risultato diverso». Detta in altre parole il mantenimento del vantaggio competitivo passa per l’innovazione sistematica, o meglio, routinizzata di schumpeteriana memoria.

Per innovare, tuttavia, non è sufficiente inventare o realizzare nuovi dispositivi ma è necessario fare si che questi vengano largamente e utilmente impiegati. Un’invenzione, infatti, può definirsi innovativa solo se determina un vero e proprio miglioramento della cosiddetta “esperienza” di una significativa quantità di individui.

Naturalmente l’innovazione può avere anche degli effetti collaterali se non è ben compresa e gestita. Si pensi, ad esempio, all’utilizzo errato dell’energia nucleare. La vasta diffusione delle tecnologie può causare, infatti, inquinamento, esaurimento di risorse naturali, malattie, distruzione, trasformandosi essa stessa in “involuzione”.

Dunque è possibile organizzare un processo di innovazione sistematica, routinaria, taylorizzata? In effetti sì, ma è assolutamente necessario come primo passaggio individuare il momento preciso in cui si determina il bisogno di inventare qualcosa di nuovo. Comunemente le Aziende con una solida cultura industriale hanno una grande familiarità con l’operational excellence, che le conduce a perseguire continuamente il miglioramento delle prestazioni, grazie all’applicazione di metodologie consolidate da decenni e sviluppate dal sistema Toyota in avanti. Certamente, fino a che la direzione seguita è feconda e i ricavi danno ragione degli sforzi sostenuti, si ottengono ottimi risultati.

Tuttavia, dopo quindici anni di lavoro nella gestione e il miglioramento di processi industriali, trascorsi applicando gli strumenti della Lean Production e del Six Sigma, mi sono trovato a chiedermi se questi siano gli strumenti adatti ad affrontare anche problemi di innovazione, addentrandomi, in questo modo, su un nuovo sentiero…

L’Operational Excellence conduce a standardizzare e a ottimizzare progressivamente i processi, rendendoli sempre più efficaci, efficienti e consentendo di guadagnare in rapidità di esecuzione (riduzione del tempo ciclo, di setup, eliminazione dei difetti, ecc.). Tuttavia la standardizzazione agisce come un fiume che si scava un alveo sempre più profondo, rendendo via via più arduo qualsiasi mutamento di percorso. L’ottimizzazione, inoltre, è la scienza del compromesso (Figura 1) che è raggiunto quando si individua la combinazione di parametri che massimizzano la funzione obiettivo definita per soddisfare le esigenze di business. Come ci si sposta dal punto di equilibrio se un parametro migliora, l’altro peggiora.

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Figura 1 – ottimizzare significa raggiungere un compromesso.

Immaginiamo, per esempio, di dover realizzare un tavolo che debba avere una buona rigidità e un peso accettabile. Certamente agendo sullo spessore del piano del tavolo si può ottenere un ragionevole compromesso fra peso e rigidezza. Il processo ricorda un po’ i negoziati. Quando ciascuna delle due controparti, pur di raggiungere un accordo, rinuncia a qualcosa senza essere del tutto soddisfatta, l’accordo stesso è precario e rischia di non essere duraturo. Un buon accordo è raggiunto, invece, quando le esigenze di entrambe le parti sono pienamente soddisfatte. Tornando al tavolo, l’ottimo (anzi il compromesso) individuato sarà presto soppiantato da una soluzione molto migliore di un concorrente, che produrrà un tavolo assai più leggero e resistente, rendendo la precedente soluzione inadeguata. Una risposta appropriata sarebbe quella di realizzare un tavolino più leggero e più rigido di quello del concorrente: non è possibile fare compromessi per ottenere un prodotto competitivo. È necessario migliorare contemporaneamente entrambi i parametri (Figura 2)!

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Figura 2 – Innovare significa non fare compromessi.

Un progettista che debba affrontare una situazione del genere è chiamato a risolvere quella che un certo Genrich Altshuller definì una «contraddizione tecnica».

Altshuller era un ufficiale che, lavorando all’ufficio brevetti della marina militare sovietica (dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale), ebbe l’opportunità di esaminare un gran numero di brevetti, esperienza da cui trasse due considerazioni molto importanti:

– gli inventori, quando inventano, risolvono una contraddizione, ovvero una situazione in cui, pur nella necessità di migliorare due parametri, si è nella situazione in cui, senza modificare radicalmente il sistema, il miglioramento di un parametro determina il peggioramento dell’altro;

– i processi di risoluzione delle contraddizioni sono degli algoritmi di problem solving che possono essere individuati e classificati.

Altshuller con un lavoro durato fino a quando morì nel 1998, costruì una metodologia, nota come TRIZ (Teoriya Resheniya Izobreatatelskikh Zadatch) traducibile in italiano come Teoria per la Soluzione dei Problemi Inventivi.

Il TRIZ si è evoluto negli anni e ormai vi sono molti lavori che ne hanno ampliato le possibilità di impiego, grazie all’evoluzione degli algoritmi inventivi di Altshuller, lo sviluppo di database di problemi e soluzioni, nonché lo sviluppo di applicazioni che aiutano a trattare problemi di tipo inventivo (Computer Aied Innovation).

L’applicazione del TRIZ non è immediata e non è sufficiente un corso di un paio di giorni per iniziare ad applicarne gli algoritmi: perché un team inizi ad affrontare proficuamente problemi inventivi è necessario che i suoi membri ne comprendano i principi, spesso controintuitivi, e si allenino a utilizzarne gli strumenti.

Cosa distingue le persone comuni dagli inventori? Tipicamente un individuo non riesce a inventare per due principali problemi:

– non vede qual è il problema specifico da affrontare, perché è troppo immerso nel contesto (mancata astrazione del problema);

– è affetto da “inerzia psicologica”, sostanzialmente legata alle abitudini che vengono consolidate in schemi che si acquisiscono nel corso degli anni (tutti tendiamo ad applicare schemi di soluzioni che già conosciamo).

L’inerzia psicologica è un fattore molto comune. Ogni individuo ha un picco di creatività, più o meno nel corso della prima adolescenza, che va poi riducendosi man mano che acquisisce conoscenza ed esperienza, cosa che consente di acquisire la capacità di dare risposte automatiche. Succede un po’ come quando si guida la macchina: dopo qualche tempo il guidatore non pensa più a come deve agire su cambio, frizione, acceleratore e freno. Semplicemente guarda la strada e guida. Questo tipo di comportamento innato aumenta, con l’esperienza, la capacità di reazione, ma diminuisce quella di offrire nuove risposte.

Con le stesse modalità la standardizzazione dei processi migliora la capacità di dare risposte, appunto, “standard”.

Poste queste premesse immaginiamoci di affrontare un problema di innovazione, magari con un team di tecnici molto preparati ed esperti di problem solving. Quando si cercano nuove soluzioni possono essere applicate molte tecniche di generazione di idee. Una di queste è il brainstorming che, se ben gestito, consente di produrre un numero molto elevato di idee le quali, a loro volta, vengono analizzate e ridotte a un insieme ristretto di soluzioni possibili al problema. Tipicamente questo approccio presenta alcune limitazioni importanti:

– l’approccio non nasce per indirizzare delle soluzioni, ma è costruito per generare il maggior numero possibile di idee;

– non costringe il team a pensare out-of-the-box.

Per contravvenire a queste limitazioni Altshuller notò che i sistemi tecnici seguivano una serie di leggi utili al nostro problema.

1) Ogni sistema tecnico esiste per rilasciare una funzione principale (nota come Main Useful Function – MUF). Ad esempio un martello nasce per piantare chiodi (MUF). Per essere maneggiato deve avere anche delle funzioni ausiliarie (Auxiliary Functions – AF), come l’impugnatura, necessaria a esprimere la MUF. La presenza di questa funzione genera, ahimè, una funzione dannosa (Harmful Function – HF) che è la trasmissione, a ogni impatto, delle vibrazioni al polso di chi usa il martello. L’esercizio di queste funzioni determina un dispendio di risorse quali, ad esempio, le calorie consumate da chi pianta il chiodo. Tanto più un sistema è caratterizzato da una MUF e tanto meno dà effetti indesiderati (HF) e consumo di risorse (RC), esso è più vicino alla sua idealità. Una sua misurazione, definita Ideal Final Result (IFR), è rappresentata in Figura 3.

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Figura 3 – L’Ideal Final Result di un sistema tecnico

2) Nel tempo la funzionalità richiesta al sistema tende a permanere mentre le soluzioni che la consentono tendono a mutare. È un esercizio piuttosto interessante quello di osservare come i sistemi evolvono. Un occhio addestrato può cogliere delle strutture anche in questo processo. Un esempio simpatico lo offre una pubblicità della Stanley (Figura 4).

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Figura 4 – L’evoluzione del martello secondo la Stanley.

3) I sistemi tecnici evolvono secondo leggi oggettive e tendono a massimizzare il loro grado di idealità. Di fatto ogni sistema ha un limite teorico delle prestazioni dal quale è molto lontano inizialmente, ma che tende a raggiungere nel tempo, man mano che viene perfezionato.

4) Ogni sistema tecnico, i cui stati di funzionamento possono essere descritti come funzione dei suoi parametri, è caratterizzato da combinazioni degli stessi che non possono essere raggiunte per mezzo dell’ottimizzazione. Esse sono dette contraddizioni. Qui ci si riferisce al problema descritto nella Figura 1 e nella Figura 2.

5) Qualsiasi problema tecnico specifico può essere ricondotto a un problema generale al quale applicare una soluzione generale dalla quale, a sua volta, derivare la soluzione specifica applicabile al problema iniziale. Si noterà che lo schema di Figura 5 aiuta ad astrarre il team di lavoro dal contesto.

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Figura 5 – L’uso dell’astrazione per la risoluzione dei problemi.

6) Dato il numero finito di modelli del problema e di principi risolutivi, soluzioni con

cettualmente analoghe possono essere applicate a problemi tecnici apparentemente diversi. Questo principio è il cuore del lavoro di Altshuller che sviluppò varie tecniche di risoluzione dei problemi inventivi.

L’approccio di Altshuller, almeno inizialmente, non fu ben compreso. Lo stesso Stalin, quando ricevette una sua lettera che proponeva il metodo, rinchiuse quest’ultimo in un Gulag dal quale uscì solo alla morte del dittatore. Certamente questa fu una dura prova per il padre del TRIZ, ma questi riuscì a rovesciare la situazione guardando il problema in modo diverso. Fra i suoi compagni di prigionia c’erano molti pensatori (matematici, fisici, filosofi, chimici, ecc..) con i quali strinse forti legami tanto per non impazzire, quanto per sviluppare ulteriormente le proprie conoscenze scientifiche, costruendosi un bagaglio che gli sarebbe stato utile per i successivi sviluppi del TRIZ.

Nel prossimo numero proverò a rappresentarvi alcuni esempi di strumenti e applicazioni di Problem Solving Inventivo, fornendovi qualche utile spunto bibliografico.