Le soft skills riguardano la gestione ottimale della complessa rete socio-emotiva che circonda ciascuno di noi e che abbraccia gli ambiti della famiglia, delle amicizie e del lavoro. Si tratta di un insieme di capacità sociali, di comunicazione e di persuasione in grado di rendere una persona particolarmente efficace, utile, considerata e seguita nell’ambito delle diverse sfere in cui si svolge la sua vita di relazione, da quella lavorativa a quella degli affetti. Le soft skills riguardano anche la capacità di lavorare in squadra, di svolgere, quando necessario e utile, anche una funzione di leadership e di assumere con consapevolezza e con elevato livello di ingaggio le responsabilità connesse al proprio ruolo nell’organizzazione. Abilità e capacità di questo tipo, per quanto “intangibili”, contribuiscono significativamente al clima organizzativo, al wellbeing delle persone e, in definitiva, alle prestazioni. E diventano sempre più importanti al crescere della complessità dei sistemi di relazione interpersonale, che oggi si avvalgono di una molteplicità di canali impensabile fino a pochi decenni fa.
Le aziende attribuiscono oggi molto peso a questo tipo di competenze, dette “soffici” in contrasto con quelle “dure” che sono tradizionalmente associate con le abilità e le conoscenze tecniche essenziali per la vita professionale, e a esse dedicano una quantità crescente di risorse di formazione. Ciò nonostante il capitale umano di cui le organizzazioni dispongono è in genere fortemente carente da questo punto di vista. Inoltre, la maggior parte delle persone manifesta un atteggiamento ambivalente: pur dichiarandosi consapevole dell’importanza delle soft skills, guarda in realtà con un certo grado di sufficienza le opportunità di crescita in questo campo e considera quindi tempo quasi sprecato quello dedicato al miglioramento delle capacità individuali. In parte ciò si deve alle iniziative di formazione che in questo settore assumono di solito una forma troppo ludica, e vengono prese spesso, nel caso migliore, come un divertissement che crea una pausa piacevole nella routine quotidiana, purché ovviamente non rubi troppo tempo alle attività che contano veramente.
In realtà, a parte il nome, non c’è niente di “soffice” in queste competenze, la cui acquisizione richiede studio, impegno costante e paziente applicazione. Joe Vitale, autore di Buying trances (Wiley& Sons, 2007), ci propone un esempio simpatico, che mi è rimasto impresso perché è un’esperienza che ho fatto personalmente qualche anno fa. Immaginate di entrare in un negozio di articoli per giochi di prestigio per acquistare qualcosa con cui stupire i vostri figli (o i vostri nipotini …). Probabilmente resterete incantati a osservare il commesso che vi dimostra alcuni trucchi, e sceglierete quelli che vi hanno colpito di più e ritenete adatti all’età dei vostri piccoli. Arrivati a casa, se siete come me, vi chiuderete nel vostro studio e aprirete immediatamente le confezioni per preparare lo spettacolo; nel 99% dei casi rimarrete assolutamente delusi dalla banalità del trucco, e vi renderete conto che l’effetto magico non sta tanto nell’oggetto utilizzato, quanto nella bravura e nella destrezza del commesso che ve lo ha dimostrato. Bravura e destrezza che non avete, e non avete certo tempo di acquisire. A questo punto probabilmente avrete la sensazione di aver buttato qualche decina di euro. Tuttavia, se il disappunto vi permette di ragionare con un po’ di onestà intellettuale, dovrete ammettere che il trucco non può essere così banale, visto che ha catturato la vostra attenzione. E vi renderete conto che, come sul palcoscenico, molte delle cose più interessanti nella vita reale sono il risultato della corretta applicazione di principi molto semplici, che devono però essere pienamente compresi e applicati con maestria. La base fondamentale per l’acquisizione delle soft skills è la comprensione dei meccanismi di percezione. Questi, infatti, determinano il nostro atteggiamento mentale nelle diverse situazioni in cui ci troviamo, influenzando così le nostre emozioni e di conseguenza le decisioni che prendiamo, il modo con cui ci rapportiamo agli altri e più in generale i nostri comportamenti.
Questi ultimi dipendono dalla nostra rappresentazione della realtà, che determina in larga misura il modo con cui percepiamo il mondo circostante, le sensazioni ed emozioni che proviamo, le opzioni e le scelte che riusciamo a ipotizzare nelle diverse situazioni. È molto utile rendersi conto di quanto stress ed emozioni dipendano dalle mappe mentali piuttosto che dalla realtà: è la mente che definisce i contorni e il significato delle nostre esperienze.
Come spesso accade nel caso di argomenti che si collocano ai confini tra diverse discipline, nella letteratura c’è un po’ di confusione su quali e quante siano le soft skills. Alcuni autori ne hanno classificate fino a sessanta, includendo tra queste virtù personali, come l’onestà, e specifiche tecniche di organizzazione e gestione, come il project management. In realtà le soft skills comprendono le sensibilità e le abilità necessarie per intervenire su percezioni, emozioni e atteggiamento mentale in noi stessi e negli altri, e si possono dividere in due grandi classi:
Classe I
Quelle che determinano l’atteggiamento mentale dell’individuo rispetto alla realtà e ai problemi di relazione. Ad esempio di fronte a una situazione critica un individuo potrebbe provare un forte stress, che ovviamente riduce le sue capacità raziocinanti e quindi gli impedisce di rispondere in modo ottimale; un altro potrebbe vedere invece uno stimolo e un’opportunità di cambiamento e di crescita, ricevendo così un forte impulso motivazionale.
Classe II
Quelle che riguardano direttamente l’interazione con gli altri, tra cui ovviamente occupa un ruolo importante la comunicazione.
Ovviamente le due classi non sono indipendenti: è evidente infatti che l’atteggiamento di un individuo nei confronti della realtà condizioni i processi di comunicazione in cui è coinvolto, e viceversa. A fondo pagina un elenco delle principali soft skills classificate nelle due categorie. Al primo posto nelle due classi troviamo la capacità di comprendere gli impatti fisici, mentali e sociali che le emozioni producono sul nostro corpo, sulla nostra mente, sulle nostre relazioni sociali e sulla possibilità di perseguire e raggiungere i nostri obiettivi. Le persone che ne sono dotate riescono a gestire le proprie emozioni in relazione a quelle degli altri in modo che le emozioni stesse non siano un ostacolo, ma anzi sostengano le loro attività, le relazioni e la qualità della vita; dimostrano così un elevato grado di confidenza sulle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che si incontrano in modo da raggiungere i risultati prefissati (autoefficacia); non si spaventano in occasione di cambiamenti anche molto significativi, che affrontano al meglio delle loro capacità.
Nella prima classe troviamo poi, oltre alle abilità creative e di problem solving, la gestione del tempo; Il termine “gestione del tempo” non ha significato in senso stretto, in quanto lo scorrere del tempo stesso è fuori dal nostro controllo. Il problema vero è la gestione del nostro comportamento rispetto al tempo e, come sosteneva Peter Drucker, poiché il tempo è la più scarsa delle risorse, se non riusciamo a far questo non possiamo gestire nient’altro. Infine, la consapevolezza situazionale implica l’abilità di formulare una diagnosi precisa delle circostanze in cui ci troviamo, del supporto che possiamo eventualmente ottenere dagli altri e delle opportunità e minacce che ciò comporta rispetto alle nostre effettive capacità e risorse; all’interno delle organizzazioni ciò significa avere una chiara percezione del proprio ruolo, dei propri limiti e delle proprie responsabilità.
Allo stesso modo, nella seconda classe, un ruolo fondamentale gioca l’empatia. In effetti le persone con cui “si sta bene” sono quelle che hanno capacità di connessione empatica. Ci danno l’impressione che ci capiscano, che non ci giudichino, che siano attente ai nostri sentimenti, ci ispirano fiducia e desiderio di condivisione. Connessione empatica vuol dire focalizzazione sul mondo interiore dell’interlocutore, percezione delle spie emozionali, attenzione ai segnali non verbali e comprensione della sua mappa mentale, senza lasciarsi guidare dai propri schemi di attribuzione di significato. Richiede una sensibilità molto fine e rara e una non comune maturità emotiva. Questo approccio non significa gentilezza a tutti i costi, disponibilità assoluta o ipocrisia: significa solo accettazione dei valori e dei filtri attraverso i quali il nostro interlocutore interpreta la realtà, senza alcuna pretesa di giudizio o di superiorità intellettuale o morale. In questo modo potremo porgere i nostri argomenti senza urtare inutilmente suscettibilità o entrare in contrasto con convinzioni o valori. Potremo inoltre far leva, ove possibile, sulle percezioni e sugli schemi mentali che risultassero allineati con i nostri obiettivi. E infine, se ritenuto necessario, una volta stabilita la sintonia e il clima di fiducia, sarà più facile svolgere un’azione di persuasione per modificare l’atteggiamento mentale del nostro interlocutore.
Si tratta in sostanza di sviluppare un buon livello di “intelligenza emotiva”. Che l’intelligenza non sia solo quella legata alle funzioni cognitive è noto da molto tempo. Ma è solo nel 1983 che Howard Gardner, nel suo libro Frames of mind: The theory of multiple intelligence, teorizza che esistano altri due tipi di intelligenza: quella “intrapersonale” legata alla comprensione delle proprie emozioni, sentimenti, motivazioni, paure, e quella “interpersonale”, legata alla comprensione degli altri.
Nel 1985 Wayne Payne, nella sua tesi di dottorato, introduce per la prima volta il termine “intelligenza emotiva”. Tale termine diverrà ampiamente conosciuto e utilizzato in tutto il mondo dopo la pubblicazione, nel 1995, del bestseller di Daniel Goldman Emotional intelligence: Why it can matter more than IQ.
Un buon livello di intelligenza emotiva permette di inserirsi facilmente all’interno di gruppi già formati, di essere riconosciuti come “capi” senza troppe gelosie, di essere accettati come mediatori o arbitri imparziali nella soluzione di conflitti. Il suo sviluppo risente molto delle varie esperienze personali ed è difficile da controllare; tuttavia, il semplice riconoscimento della sua importanza può determinare una svolta nei comportamenti di relazione. Sforziamoci di osservare criticamente noi stessi e gli altri e di imparare dall’esperienza e, soprattutto, dagli errori.
Gestire efficacemente le relazioni con gli altri non è semplice come sembra: non si tratta infatti tanto di trattare chiunque come un amico, quanto di riuscire a trovare un terreno comune di relazione con tutti. Questa capacità è forse la manifestazione più visibile dell’intelligenza emotiva. Chi ne è dotato, infatti, si rivela un ottimo “giocatore di squadra”, qualunque sia il suo ruolo, da dirigente a semplice gregario; ha successo nel persuadere e riesce a distinguere quando è il caso di fare appello alle emozioni e quando invece conviene utilizzare argomenti razionali; è in grado di trasmettere ai colleghi il proprio entusiasmo e la propria passione.
Teniamo anche conto del fatto che l’atteggiamento mentale, le emozioni, i sentimenti, sono contagiosi. Qualche volta diciamo, in occasione di un incontro o di una riunione particolarmente rissosa, che fin dall’inizio “si respirava elettricità nell’aria”. A tutti è capitato di percepire in modo quasi tangibile ostilità o simpatia prima ancora di ogni manifestazione verbale. È evidente che chi riesce a manipolare questa trasmissione di segnali, controllandola e fornendo i messaggi più opportuni, detiene un grande potere di relazione capace di volgere a suo favore eventuali transazioni; così come un grande potere relazionale appartiene a coloro che proiettano sentimenti tali da placare gli animi e generare una sensazione generale di calma e tranquillità. Insomma, comunicazione persuasiva, assertività, negoziazione e gioco di squadra sono le ulteriori componenti della seconda classe.
Tra le componenti della seconda classe, un cenno merita la capacità di seduzione. Chi ha seguito i precedenti editoriali sa che questa è strettamente legata a particolari abilità nella costruzione del proprio carisma personale, qualità essenziale per proiettare un’immagine positiva e affidabile, ottenere considerazione e visibilità, generare consenso e assumere un ruolo di riferimento e di guida all’interno di un gruppo.
Infine, a quanto sopra occorre aggiungere la capacità di leadership, non inquadrabile in una delle due classi in quanto le comprende al suo interno. Tale capacità è conseguibile infatti solo con la padronanza di gran parte delle soft skills sopra elencate, unitamente a solide competenze di natura organizzativa, manageriale e decisionale. La capacità di leadership è l’elemento che consente di trasformare un “gruppo” di persone in una “squadra”, ottenendo così prestazioni non raggiungibili tramite il semplice cumularsi degli sforzi individuali. È una fortuna che si possa apprendere, anche se non è facile. Non è una qualità che si può acquisire semplicemente ascoltando seminari o consultando manuali, anche se questi possono fornire alcune linee guida. Occorre tempo, determinazione e molta fatica. Soprattutto, è essenziale l’applicazione continua e un sincero desiderio di migliorare.