Approfitto del titolo di questa rubrica (match point) per deviare dai consueti argomenti cinematografici e parlare invece di… tennis, proseguendo il filo ideale del numero precedente, in cui ho valutato il concetto di leadership negli sport di squadra attraverso l’esame di alcuni celebri film sportivi.
Questa volta esaminerò, invece, alcuni famosi libri tennistici. Sono testi interessanti perché spesso gli insegnamenti che vengono impartiti sono applicabili non solo alla disciplina sportiva ma anche alla vita lavorativa e a quella personale.
Il primo testo che andrò ad analizzare è uno dei più famosi manuali di tennis mai scritti: The Inner Game of Tennis di Timothy Gallwey (Random House, 1997 – traduzione italiana: Il gioco interiore del tennis, Ultra 2013). Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1972, la famosa tennista statunitense Billie Jean King lo ha eletto a sua personale «bibbia del tennis», e all’epoca della sua uscita fu una vera e propria rivoluzione nell’ambito della manualistica sportiva.
Prima di questo testo, infatti, i manuali di questo tipo si concentravano quasi esclusivamente sulla tecnica, ossia quali esercizi fare per migliorare le proprie doti atletiche e la propria abilità. Questo breve testo, invece, come si può intuire dal titolo, si concentra esclusivamente sull’allenamento mentale.
Gallwey, infatti, capì un concetto fondamentale: allenare il corpo è la cosa più semplice, qualsiasi persona dotata di un livello minimo di coordinazione e salute può migliorare la propria tecnica allenandosi. Questo vale per lo sport, ma anche per qualsiasi altra abilità umana. Gli ostacoli più difficili da superare non sono quelli fisici ma quelli mentali. Basandosi in parte sulla teoria psicanalitica, Gallwey identifica due identità nella mente che lui chiama semplicemente Self 1 e Self 2. Il Self 2 è l’identità abile, allenata, che sa come agire per vincere. Il Self 1 è una sorta di super-io, l’identità che frena il Self 2 con giudizi, critiche, dubbi, paure. La ricetta vincente non è continuare ad allenare ossessivamente solo il Self 2, ma allenare, contemporaneamente, anche il Self 1. La chiave fondamentale, secondo Gallwey, è apparentemente semplice ma in realtà incredibilmente difficile: lasciarsi andare. Non pensare troppo, non incartarsi in ragionamenti astrusi e inutili, non criticare troppo il Self 2 e avere fiducia in lui e nelle sue abilità. E questo non vale solo per il tennis: quante volte, nella vita, una persona si trova a perdere occasioni perché analizza troppo una situazione, si fa assalire dai dubbi, fino ad arrivare alla paralisi?
Un altro testo estremamente interessante è Winning Ugly – Mental Warfare in Tennis lessons from a Master (Touchstone, 1994 – traduzione italiana: Vincere Sporco – Guerra mentale nel tennis, Priuli & Verlucca, 2013), scritto da Brad Gilbert (con Steve Jamison), ex tennista medaglia d’oro alle olimpiadi e per molti anni allenatore di Andre Agassi e dell’attuale numero 1 ATP Andy Murray. Famosa la frase con cui si presentò ad Agassi, prima di diventare il suo coach: «Io ho vinto un sacco di partite che avrei dovuto perdere. Tu hai perso un sacco di partite che avresti dovuto vincere. Penso di poterti essere utile.» Questa frase ben riassume il punto di vista dell’autore: Gilbert, in carriera, è arrivato al 4 posto del ranking ATP, battendo in molti match diversi campioni considerati da esperti e appassionati più bravi e più “belli” da vedere di lui (due su tutti: Becker e McEnroe). Nel saggio spiega come ci sia riuscito: sfiancandoli sul piano mentale, più che su quello tecnico. Gilbert parla onestamente del suo stile tennistico come “brutto” (da cui il titolo del libro) ed è perfettamente consapevole di quali fossero i suoi limiti da questo punto di vista. Una delle parti più divertenti del libro è il racconto della sua partita contro la leggenda del tennis John McEnroe alla Masters Cup del 1986, in cui McEnroe perse in un crescendo di nervosismo e lamentele, spinto a errori ripetuti da un calmissimo Gilbert, sempre in perfetto controllo della partita. McEnroe considerava l’avversario molto al di sotto della sua altezza, e fu talmente sconvolto dalla sconfitta che alla fine del match, a soli ventisette anni d’età, dichiarò alla stampa di volersi ritirare e non toccò una racchetta per sei mesi, prima di tornare sui suoi passi.
Anche la vittoria di Gilbert contro Becker agli US Open del 1987 fu ottenuta con una precisa strategia di superiorità mentale. Gilbert, consapevole di essere tecnicamente inferiore al grande campione tedesco, decise di sfruttare un difetto psicologico di quest’ultimo: l’impazienza. La sua strategia principale fu quella di ribattere costantemente qualsiasi palla di Becker, senza cercare colpi vincenti, fiducioso del fatto che l’avversario sarebbe stato annoiato e innervosito da questo atteggiamento e avrebbe cercato di forzare. Fu esattamente così che andò, e dopo un’iniziale dominio di Becker, Gilbert vinse 2/6, 6/7, 7/6, 7/5, 6/1. Anche questo manuale insegna, in definitiva, che ciò che conta nelle sfide è il dominio mentale e che un atteggiamento psicologico solido e positivo può sopperire enormemente alle carenze tecniche di qualsiasi tipo.
E non posso non concludere questa breve rassegna con uno dei libri tennistici più celebri degli ultimi anni: Open, l’autobiografia di Andre Agassi (Vintage, 2010 – traduzione italiana: Open. La mia storia, Einaudi 2015).
«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore». Sembra quasi incredibile che uno dei più grandi campioni di tutti i tempi, una persona che ha dedicato al tennis tutta la sua vita, possa fare una simile dichiarazione. Questa biografia, onesta fino alla crudeltà, racconta del bambino schiavizzato dal padre per essere trasformato in una macchina tennistica perfetta, dei turbamenti, dell’infelicità, della sofferenza che si accompagna a una vita ossessivamente dedicata a un unico obiettivo. Ma racconta anche di come quei sacrifici lo abbiano fatto diventare quello che è e soprattutto di come, alla fine di una carriera splendente ma tormentata, l’uomo abbia saputo trovare la felicità ritrovando se stesso e facendo la pace con quello sport che gli aveva contemporaneamente dato e tolto tutto. Un testo che non è un manuale, ma contiene comunque dei grandi insegnamenti: sapersi guardare dentro e capire le proprie “debolezze” è in realtà un’incredibile dimostrazione di “forza” interiore, e uno dei passi più difficili che una persona possa compiere.
«L’immagine è tutto» è un noto slogan apparso in una pubblicità della Canon del 1990 per cui Agassi fece da testimonial. In brevissimo tempo lo slogan si trasferì dal prodotto al testimonial, e quella frase condizionò Agassi per tutta la carriera. L’epifania finale del libro è un insegnamento banale ma autentico: in una sorta di ribaltamento di quello slogan, Agassi capisce che per essere felici e completi bisogna accettarsi per quello che si è e non nascondersi dietro alla propria immagine.