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Storie di cantastorie irresistibili

Se fosse davvero esistita, la giovane Shahrazād, protagonista della raccolta di fiabe Le Mille e una notte, potrebbe essere definita la più abile persuaditrice della storia, un’eroina femminista ante litteram che è il sommo esempio dell’importanza vitale (mai aggettivo fu più calzante) dello storytelling.

Vediamo le premesse, per chi non le conoscesse: Shahryar, mitologico sovrano della Persia, dopo aver scoperto il tradimento della moglie decide di vendicarsi sull’intero genere femminile, portandosi a letto una donna diversa ogni notte per poi ucciderla all’alba. Per fermare questa strage, la coraggiosa e intelligente Shahrazād decide di offrirsi come vittima sacrificale dell’appetito carnefice del re. La ragazza ha fiducia nelle proprie possibilità perché sa di possedere una dote potentissima, che non ha nulla a che fare con le tradizionali doti attribuite al genere femminile, quali la bellezza o la magia: Shahrazād è un’abile narratrice.

Giunta nelle stanze private di Shahryar, Shahrazād comincia a raccontargli una storia che, come lei prevedeva, cattura l’attenzione dell’uomo. La narrazione si protrae per tutta la notte e l’alba, il momento in cui il re solitamente faceva uccidere le concubine con cui giaceva, la storia è giunta proprio al suo momento culmine. Il re vuole sapere come la storia va a finire e decide quindi di concedere una seconda notte a Shahrazād per farsi raccontare il finale, rimandando l’uccisione all’alba successiva. La notte dopo Shahrazād termina la storia lasciata in sospeso, ma ne inizia immediatamente una nuova… che avrà il suo momento di culmine proprio all’alba del mattino dopo.

Avete capito, anche dal titolo della raccolta, come prosegue la vicenda: lo schema si ripete per mille e una notte, e  alla fine di questi tre anni Shahryar, cambiato e plasmato dai racconti di Shahrazād, decide di sposare la fanciulla che l’ha conquistato con la sua abilità narrativa.

Questa meta-fiaba insegna molte cose: insegna la potenza persuasiva delle storie, il fatto che attraverso un racconto qualcuno possa cambiare opinione e persino natura, il fatto che una buona storia sia un potentissimo mezzo di seduzione, la fame umana ancestrale per le buone storie e il fascino psicologico di uno schema narrativo interrotto (oggi comunemente definito cliffhanger: il motivo per cui le puntate dei telefilm si interrompono sempre sul più bello).

Il potere seduttivo di una storia è alla base anche del celebre romanzo Peter Pan di J.M. Barrie, in cui il puer aeternus viene conquistato dalle favole di Wendy e decide perciò di portarla sull’Isola che non c’è a fare da “mamma” per tutti i bambini sperduti. Il romanzo è stato trasposto in numerose opere cinematografiche, tra cui la più conosciuta è la versione animata della Disney (1953) in cui il ruolo di cantastorie di Wendy è ben sottolineato, e che cos’è, in fondo, l’Isola che non c’è se non un luogo in cui storie e avventure diventano realtà? Anche in una delle più celebri rivisitazioni della fiaba, il film Hook – Capitan Uncino (1991, diretto da Steven Spielberg) un Peter Pan invecchiato e inaridito riesce a salvare il suo rapporto con i figli riappropriandosi della propria personale storia e ricominciando a credere nelle favole, perché le storie, con la potenza delle loro metafore, hanno un ruolo anche catartico.

Lo sanno bene gli sceneggiatori della divertentissima serie comica The IT Crowd, che dedicano un’intera puntata alla celebrazione dello storytelling. In Jen the “Fredo” (prima puntata della stagione 4), Jen Barber, una dei protagonisti della serie, viene nominata responsabile dell’intrattenimento di tre uomini d’affari in visita alle Reynholm Industries (la fittizia azienda dove è ambientata la sitcom e dove Jen è capo del reparto IT). I tre businessmen sono un ritratto demenziale del “vero uomo” maschilista, venale e pecoreccio e si aspettano che la povera Jen li accompagni in locali a luci rosse e offra loro alcol e donne a volontà. Jen, che non ha alcuna intenzione di assistere a spettacoli di spogliarello, decide di delegare il gravoso compito di intrattenimento ai suoi due sottoposti all’IT, i super-nerd Roy e Moss. Quest’ultimo, che da buon nerd è appassionato di giochi di ruolo, decide di organizzare una sessione di un non meglio precisato gioco ad ambientazione fantasy. I tre businessmen inizialmente perplessi vengono infine conquistati dal gioco narrativo-drammatico, tanto da definirlo una delle più belle esperienze della loro vita. Alla sessione partecipa anche Roy, in qualità di personaggio giocatore, e Moss approfitta del gioco per far superare all’amico/collega il trauma di essere stato appena lasciato dalla propria fidanzata, facendogli vivere in forma di favola un eterno addio alla sua amata. In un crescendo di situazioni comiche e demenziali, tipiche della serie, gli sceneggiatori dimostrano ancora una volta la lezione di Shahrazād: le storie hanno il potere di cambiare le persone e uno dei motivi per cui le persone sono tanto avide di storie è che l’immedesimazione può  aiutare a comprendere la propria natura e a superare i propri traumi.

Un film che mostra come le storie possano avere una forza anche negativa, con i loro stereotipi, è Come d’Incanto (Enchanted, 2007), prodotto misto animato e live-action della Disney. La protagonista del film è Giselle, che è una rappresentazione satirica del perfetto stereotipo della principessa da fiaba romantica: bella, buona, ottimista, voce da usignolo, incontra nel bosco il principe Edward, anche lui bello, buono e ottimista come lei, e i due si innamorano e promettono amore eterno nello spazio di una canzone. Ma la classica matrigna malvagia, temendo la rivalità al trono della futura nuora, decide di eliminarla facendola uscire dalla fiaba, attaverso una sorta di portale dimensionale, nel luogo «dove nessuno è contento», cioè a New York, nella nostra realtà, ai giorni nostri. Qui Giselle conoscerà Robert, giovane padre divorziato scontento della sua vita. Nel tentativo di rapportarsi con la nostra realtà e portare un po’ di gioia a Robert, Giselle imparerà l’importanza di superare gli stereotipi narrativi in cui è intrappolata per poter realizzarsi come personaggio completo (a tutto tondo) e capirà che i sentimenti sono qualcosa di troppo complesso da poter essere riassunti con una superficiale canzone.

Ma il film che forse è la più grande apoteosi mai realizzata della “potenza narrativa” è La storia fantastica (The princess bride, 1983, diretto da Rob Reiner), adattamento dell’omonimo romanzo di William Goldman. Il film è una storia nella storia: un nonno che conquista l’attenzione e l’affetto del nipote Jimmy raccontadogli la storia rocambolesca di Westley e Bottondoro, una fiaba che è allo stesso tempo una satira e una celebrazione di tutti i più grandi cliché narrativi del genere avventuroso/fantastico. Il bambino passa da una iniziale diffidenza nei confronti della storia, e soprattutto dei suoi elementi amorosi (quando Westley e Bottondoro si baciano per la prima volta il film si interrompe per andare su un disgustato Jimmy che intima al nonno di «saltare tutte le parti coi baci») a una conclusione in cui chiede esplicitamente al nonno di raccontagli il lieto fine tra i due protagonisti. Il nonno dimostra ancora una volta che una bella storia è un’arma potentissima nelle mani di un abile narratore: come ha insegnato Shahrazād ormai più di mille anni fa, i racconti sono una delle armi di persuasione e seduzione più potenti al mondo.