Con questo primo contributo vorrei iniziare un breve ciclo di articoli dedicati al diversity management e volti a evidenziare come la conoscenza e la valorizzazione delle differenze delle persone all’interno delle organizzazioni debba costituire un obiettivo concreto e un motivo di successo per le aziende.
Per diversity management si intende, appunto, l’insieme delle politiche, delle pratiche e delle azioni volte a gestire la diversità degli individui o dei gruppi sociali nei luoghi di lavoro e per molti anni si è trattato di un argomento, come dire, per “addetti ai lavori”. Nel nostro Paese, secondo una ricerca condotta dalla Sda Bocconi nel 2014, su un campione di 150 aziende rappresentative delle imprese italiane con più di 250 dipendenti, solo il 20,7% ha gestito le diversità di contro a una media europea che si aggira intorno al 39,4%. Non solo: quasi sempre in Italia il diversity management ha lasciato il passo al gender management, orientato cioè all’attenzione verso il genere femminile. Quasi nessuna azienda, tra quelle campionate, si era preoccupata di diversità fisiche, etnico-culturali o legate all’orientamento sessuale.
Da un punto di vista squisitamente giuridico sono stati fatti alcuni importanti passi avanti. Si pensi al decreto legislativo 216 del luglio 2003 con il quale è stato stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro a prescindere dalla religione, convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali.
Altra tappa importante è stata la Legge 120 del 12 luglio 2011, sull’equilibrio di genere negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate e delle società controllate dalla Pubblica Amministrazione. In tema GLBT (gay, lesbian, bisexual, transgender), va ricordata la legge 76 del 20 maggio 2016, entrata in vigore il 5 giugno 2016, che ha introdotto in Italia una «regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso» e una «disciplina delle convivenze» utilizzando per la prima volta i termini “matrimonio” e “coniuge” anche al di fuori della coppia tradizionalmente intesa. Per quel che riguarda la disabilità è lunga la storia giurisdizionale: a partire dai principi costituzionali (art.3 uguaglianza; art.34 diritto allo studio; artt.30 e 38 diritto all’assistenza, all’educazione e avviamento professionale, per citarne solo alcuni) fino ad arrivare alla Legge 68 del 12 marzo 1999 che ha innovato profondamente la materia del collocamento dei soggetti con disabilità, sancendo il passaggio da un sistema per l’inserimento lavorativo di tipo obbligatorio a quello nominativo, finalizzato cioè all’inserimento lavorativo delle categorie svantaggiate in modo personalizzato e attento alle specificità individuali. Significativo è anche il D.P.R. del 4 ottobre 2013 che prevede una serie di interventi utili a dare piena attuazione alla Convenzione ONU dei Diritti delle persone con disabilità, ratificata in Italia nel 2009.
Un quadro legislativo complesso e sfaccettato che dovrebbe educare alla cultura della diversità, ma che, purtroppo, non sembra ancora avere, nel nostro Paese, una reale attuazione a livello lavorativo-aziendale.
Eppure in ambito europeo ed extraeuropeo si va diffondendo sempre di più la convinzione, peraltro dimostrata, che l’eterogeneità dei lavoratori rappresenti un valore, un vantaggio per l’organizzazione. È ormai ampiamente comprovato che l’adozione di pratiche che consentano una lotta alla discriminazione e, al tempo stesso, la libera espressione delle identità individuali migliori la produttività del singolo e l’efficacia organizzativa.
Negli ultimi decenni il mondo del lavoro si è profondamente trasformato: i cambiamenti demografici, socio-politico-economici, tecnologici, normativi e organizzativi hanno favorito un’ampia diversificazione delle aziende. L’entrata massiccia delle donne nel mercato del lavoro, il progressivo invecchiamento della popolazione, l’avvento di nuovi modelli familiari, l’internazionalizzazione della forza lavoro a seguito dei processi di immigrazione e delle politiche di espatrio, l’impegno per una maggior integrazione delle persone con disabilità così come delle persone GLBT negli ambienti di lavoro, sono realtà con cui quotidianamente le aziende, anche quelle operanti in Italia, devono confrontarsi.
Il passaggio da una gestione, diciamo, “indifferenziata” a una consapevole, diversificata ed equa nella sua eterogeneità diventa imprescindibile. Numerosi sono gli studi internazionali che hanno mostrato e dimostrato come una gestione idonea delle diversità possa fruttare all’azienda tanto benefici economici (aumento delle vendite, aumento del valore azionario, riduzione dei costi organizzativi), quanto giovamenti competitivi e reputazionali (maggior produttività, miglioramento delle relazioni interne e dei rapporti con il cliente e miglioramento generale delle capacità di employer branding).
Naturalmente a tali vantaggi fa da contraltare una maggiorazione dei costi legati alla gestione della diversità. È necessario, infatti, investire sulle politiche di superamento delle resistenze al cambiamento, sul miglioramento della comunicazione interna, ma anche promuovere servizi all’infanzia a tempo pieno, interventi per la non autosufficienza, per promuovere una migliore organizzazione degli spazi e un maggiore ricorso agli strumenti tecnologici, per favorire una più agevole partecipazione al mondo del lavoro da parte delle persone con disabilità e favorire la politica dell’integrazione culturale e religiosa.
Si tratta di una sfida ardua perché prevede non solo dei cambiamenti operativi e organizzativi, ma anche una vera e propria rivoluzione culturale che impatti e trasformi il modo di pensare, i comportamenti, i processi e gli outcome individuali, di gruppo e organizzativi.
Nel prossimo numero de Il punto andremo a illustrare tre casi pratici, tre esempi di pratiche aziendali di inclusione organizzativa legate a tre importanti realtà internazionali: Coca -Cola USA, IBM e Deutsche Bank.