Chi di noi non ha mai usato un navigatore satellitare, Google Maps, Waze, Here, o altre simili applicazioni? Ricorriamo spesso a queste tecnologie, senza mai renderci conto della spaventosa complessità delle macchine e dei software che ci permettono di godere di questo servizio: reti di satelliti geostazionari, tecnologie avanzate di comunicazione, sofisticati algoritmi, banche dati continuamente aggiornate. Eppure, l’uso di questi sistemi è semplicissimo, alla portata di tutti, anche di chi non abbia neanche una pallida idea di come possano funzionare. La stessa cosa vale per altri oggetti di uso più comune. Gli apparecchi elettronici arrivavano una volta con manuali d’uso spessi decine di pagine, in qualche caso anche di difficile comprensione. Oggi i manuali sono praticamente scomparsi, e molti dispositivi possono essere utilizzati in modo intuitivo da chiunque, anche se perfettamente ignaro dei principi di funzionamento. Possiamo affermare che l’amichevolezza, ovvero la “riduzione della complessità” dal punto di vista dell’utente, è una delle caratteristiche non solo dell’innovazione tecnologica, ma anche dei mercati: tra due oggetti che svolgono la stessa funzione il cliente è portato a scegliere ceteris paribus quello più semplice da usare.
La semplicità, a parità di funzione, è quindi un valore riconosciuto. Ciò è vero non solo per i prodotti e i mercati, ma anche nella speculazione filosofica e nella ricerca scientifica. Il primo a esprimere in modo formale questo concetto è stato il monaco francescano inglese William of Ockham (Ockham, 1285 – Monaco di Baviera, 1347), in italiano Guglielmo da Occam. Egli enunciò il principio, noto come “rasoio di Occam”, secondo cui, dal punto di vista metodologico, è opportuno eliminare con tagli netti per successive approssimazioni i postulati e le entità inutili ai fini del ragionamento e del risultato. Il principio può essere formulato come segue: «a parità di fattori, la spiegazione più semplice è quella da preferire»: in altri termini, non vi è motivo alcuno per complicare ciò che è semplice.
La formula recita: «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem» (Gli enti non devono essere moltiplicati oltre il necessario); «Pluralitas non est ponenda sine necessitate» (La pluralità non dev’essere posta senza una necessità); «Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora» (È inutile fare con più, ciò che si può fare con meno).
In realtà, Ockham non ha fatto altro che applicare il tradizionale principio medievale di semplicità della natura, peraltro già invocato da Aristotele, secondo cui «la natura opera nel modo più diretto possibile». L’evoluzione del pensiero di Ockham lo mise presto in cattiva luce con le autorità ecclesiastiche, anche se il monaco non utilizzò mai il suo rasoio in un ragionamento sull’esistenza di Dio, asserendo che questa fosse materia di fede e non dimostrabile scientificamente (è famoso in proposito l’aneddoto che ha come protagonisti Laplace e Napoleone. Quando Laplace presentò la prima edizione della sua opera Exposition du système du monde (1796) a Napoleone, questi osservò: «Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come non abbiate dato spazio all’azione del Creatore». A queste parole Laplace replicò seccamente: «Cittadino Primo console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi»).
Comunque Ockham, accusato di eresia, subì un processo da parte dell’Inquisizione ad Avignone nel 1324, a seguito del quale fu scomunicato dal pontefice Giovanni XXII. Fu successivamente assolto da Papa Clemente VI nel giugno 1349, ma era già morto da due anni.
In campo scientifico il rasoio di Ockham viene usato come regola pratica per scegliere tra teorie alternative con la stessa capacità esplicativa. Senza questa regola non potremmo avere giustificazioni per fare prevalere una teoria sulle concorrenti, e la scienza perderebbe ogni potere predittivo. Lo stesso Einstein ha affermato che è necessario «che tutto venga mantenuto il più semplice possibile, ma non più semplice di quanto sia possibile», introducendo così una sottile distinzione tra “semplice” e “semplicistico”. Ma prima ancora Leonardo da vinci sosteneva che «la semplicità è la suprema sofisticazione». In anni più recenti possiamo citare Antoine de Saint Exupéry: «La perfezione è raggiunta non quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non rimane più nulla da togliere»; o anche il famoso architetto Ludwig Mies Van Der Rohe: «Less is more».
Ciò che vale per la scienza vale anche per i comportamenti. Nel suo famoso best seller From good to great (2001 – quattro milioni di copie vendute in tutto il mondo) Jim Collins ha presentato i risultati di uno studio condotto osservando la performance storica, per 40 anni, di 1435 aziende per capire quali fossero i fattori che hanno permesso ad alcune di queste di compiere il salto da good a great. Tra questi fattori gioca un ruolo importante la leadership, che Collins classifica in 5 livelli. La leadership livello 5 si raggiunge quando dalla molteplicità di obiettivi, di motivazioni, di scenari, di idee si riesce a sintetizzare una visione semplice e chiaramente definita, capace di ispirare azioni e comportamenti. Per spiegare questo concetto con una metafora Collins fa riferimento alle storie, che si tramandano in molte culture, dell’eterno conflitto tra il riccio e la volpe. La prima traccia di queste storie si trova in un verso di Archiloco (VII secolo a.C.): «la volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande». Il riccio e la volpe è anche il titolo di un saggio del filosofo Isaiah Berlin, oltre che del volume che la contiene.
La volpe è intelligente e astuta, vede il mondo in tutta la sua complessità, ha una grande varietà di comportamenti, è capace di elaborare piani sofisticati per catturare la sua preda, sa fare molte cose. Il riccio è un animale molto semplice, la sua attenzione è limitata a ciò che può soddisfare i suoi bisogni elementari, sa fare una sola cosa, però la sa fare molto bene: è bravissimo a fare il riccio. E nel conflitto che lo oppone alla volpe, che cerca con ogni mezzo di catturarlo, vince sempre lui.
Le organizzazioni e i loro leader hanno di fronte una grande complessità di problemi. Devono essere in grado di individuare l’insieme di attività in cui possono essere migliori dei loro competitori. Devono identificare le attività che possono costituire il loro “motore economico”, ovvero il modo ottimale per generare ritorni. Infine, hanno bisogno di generare motivazione intrinseca concentrandosi su ciò che può accendere la loro passione e quella dei loro collaboratori. Tre insiemi di esigenze, cui corrispondono tre insiemi di attività, da cui scaturiscono spesso visioni confuse e contradditorie. Tuttavia, secondo Collins, un leader eccellente è metaforicamente un riccio: riesce cioè ad analizzare ciò che si trova all’intersezione dei tre insiemi per estrarne un semplice, chiaro, cristallino concetto in grado di fornire ispirazione e motivazione a tutti i livelli.
Per esemplificare ricorro, ancora una volta, a uno dei più grandi leader politici del dopoguerra: John F. Kennedy. Divenuto Presidente degli Stati Uniti in un momento in cui l’Unione Sovietica sembrava prevalere su molti fronti, Kennedy non creò nuove sovrastrutture, non moltiplicò i centri di decisione e controllo, ma ispirò l’intero Paese verso l’innovazione, il cambiamento, i diritti civili. Capì che gli Stati Uniti avevano le risorse e le capacità per eccellere nella ricerca scientifica; che l’intera economia poteva essere rivitalizzata puntando sull’innovazione; che il cuore degli americani poteva essere raggiunto facendo leva sul mito del West. Da tutto questo distillò l’immagine e il programma della “nuova frontiera”, che non era un luogo fisico ma un modo di vivere e di pensare, di muoversi verso il futuro con nuove scoperte scientifiche, con miglioramenti nel sistema scolastico e del lavoro, con il superamento delle barriere razziali, con lo stabilirsi della democrazia e della libertà in tutto il mondo. E lanciò gli Stati Uniti in un grande progetto sfidante, in grado di rappresentare emblematicamente la sua visione e darle concretezza: «portare un americano sulla Luna, e riportarlo sano e salvo sulla Terra…». Un concetto chiaro, semplice, afferrabile e verificabile da tutti, al di là dei giganteschi problemi tecnologici che l’impresa poneva (era il 1963), su cui basare nuove prospettive per la crescita del Paese.
Alla semplicità si fa riferimento in molti contesti in cui il buon funzionamento di apparati e processi è di vitale importanza. L’acronimo KISS (Keep It Simple, Stupid) è dagli anni ’60 un criterio guida della Marina americana. L’acronimo è stato coniato da Kelly Johnson, ingegnere capo alla Lockheed, per sottolineare che la maggior parte dei sistemi funzionano meglio se sono tenuti semplici piuttosto che resi complicati: di conseguenza, la semplicità dovrebbe essere uno dei principi chiave della progettazione, sia tecnologica che organizzativa, e ogni sforzo dovrebbe essere fatto per evitare o rimuovere le complessità inutili.
Complessità inutili che sono estremamente dannose anche a livello di sistemi sociali. L’antropologo e storico Joseph Tainter ha ampiamente studiato il crollo di alcune grandi civiltà del passato, dai Sumeri all’Unione Sovietica, e, in un interessante volume (The Collapse of Complex Societies, 1988), ha ipotizzato l’esistenza di un’unica causa: la crescita della complessità, determinata dalla creazione di procedure e strutture sempre più complicate nel tentativo di dare risposta ai problemi che man mano si presentavano, dalla scarsità di risorse alla difficoltà di tenere sotto controllo i processi economici e sociali. L’investimento in complessità, presenta, secondo Tainter, rendimenti decrescenti di scala: oltre una certa soglia l’impatto sul sistema diventa negativo, fino a generarne il crollo.
Tra i molti esempi discussi nel libro è interessante quello del declino dell’Impero romano d’occidente, di cui abbiamo già parlato in un precedente editoriale (cfr Il Punto, n. 40, 18 dicembre 2016). Nel III secolo d. C., esaurito il periodo delle conquiste, le energie dell’Impero erano rivolte principalmente alla difesa dei confini dalle invasioni barbariche. Per ottenere le risorse necessarie, gli imperatori ricorsero alla produzione di moneta e all’aumento delle tasse. Leggi e controlli severissimi venivano applicati per garantire l’esazione di quanto dovuto. Agricoltori una volta benestanti non riuscirono più a mantenere le loro famiglie, e molti dovettero vendere come schiavi i propri figli. Nel frattempo venivano costruite estese fortificazioni, le amministrazioni provinciali divennero più complesse, nuove città e corti imperiali vennero create, l’esercito e la burocrazia raddoppiarono di peso e consistenza. E mentre i poveri diventavano sempre più poveri, altri godevano di immense ricchezze e/o si impegnavano in spietate lotte per il potere. Per un po’ l’Impero riuscì a tenere i barbari fuori dai propri confini, ma nel lungo periodo le politiche adottate finirono con l’intaccare gravemente la stessa base economica della società, generando un enorme malcontento nella popolazione e, in definitiva, producendone il collasso.
L’analisi di Tainter è suggestiva e credo sia di applicabile in generale. In tutte le organizzazioni, dai microsistemi sociali, alle aziende, ai sistemi Paese, la spinta alla complessità ha origini comuni: la ricerca dell’efficienza nell’uso delle risorse; la percezione che alcune parti del sistema siano poco controllabili. La soluzione semplice, e quindi probabilmente quella giusta, sarebbe quella di analizzare i processi, tagliare i rami secchi, eliminare duplicazioni, rimuovere passaggi inutili, puntare sulla delega e su un maggior grado di autonomia e di responsabilizzazione delle unità periferiche. Questa strada viene raramente seguita. Si preferisce invece creare nuove strutture, ipoteticamente dedicate alla soluzione dei problemi ma che di solito, invece di alleviarli, li aggravano producendo in aggiunta non solo un drastico aumento di complessità (e quindi una caduta di efficienza complessiva), ma anche un immane spreco di risorse. La ragione per cui questo accade è evidente: per seguire la prima strada occorrono dedizione e competenza, qualità purtroppo rare; la seconda è più facile, il decisore viene immediatamente “rinforzato” dall’idea di aver fatto qualcosa di concreto che gli possa essere riconosciuta, e inoltre presenta l’innegabile vantaggio di rendere disponibili nuove posizioni di rendita da distribuire. Se si vuole un esempio, basta pensare alla giungla delle “Autorità” nel nostro Paese, le cui funzioni si sovrappongono spesso con quelle di altre branche della pubblica amministrazione. Il fatto poi che il Ministro della Pubblica Amministrazione vanti anche il titolo “della semplificazione”, oltre che un ossimoro, può essere un esempio di realizzazione visibile del vecchio detto «la lingua batte dove il dente duole».
Lo spreco di risorse e l’inefficienza amministrativa sono solo alcuni dei mali che affliggono le organizzazioni inutilmente complesse. Infatti l’incapacità di dare risposte tempestive e puntuali ai problemi genera all’interno della struttura reazioni antisistema, che ne accelerano il declino. Inoltre le persone percepiscono di far parte di un sistema ingessato, orientato più al passato che al futuro, e ciò spegne qualunque entusiasmo. Il clima interno si deteriora, si perde il senso di unità della struttura, diventa impossibile fare squadra. L’organizzazione invecchia, non necessariamente in senso anagrafico ma certamente in senso psicologico, in quanto gradualmente rancori e rimpianti finiscono per superare aspettative e speranze.
Il primo problema che dovrebbe porsi un buon leader è quello di rendere e mantenere la sua struttura snella ed efficiente. Tutte le organizzazioni dovrebbero quindi essere periodicamente “rasate”, facendo un uso intelligente dei tre principi di Ockham, rimuovendo la crescita delle incrostazioni che inevitabilmente si generano quando gli enti e le routine si stratificano e si sovrappongono nel tempo. La bravura del leader consiste nel separare le persone dai problemi, nel riuscire cioè credibilmente a tagliare le strutture senza mettere a repentaglio le aspirazioni e le aspettative di crescita delle persone, mantenendo il sistema aperto al nuovo, ai cambiamenti, alla sperimentazione, dando spazio a tutti coloro che abbiano capacità, talento e voglia di impegnarsi, ma senza lasciare indietro nessuno. Come diceva Steve Jobs: «Stay hungry. Stay foolish».