Comitati, commissioni, task force, cabine di regia sono ormai termini che fanno parte della nomenclatura di qualunque struttura di governo. Termini che vengono spesso confusi tra loro, anche se, semanticamente parlando, dovrebbero far riferimento a strutture con compiti e regole di funzionamento diverse. Differenze su cui sarebbe del tutto accademico disquisire dal momento che nella pratica corrente del governo del nostro Paese (e non solo) organismi di questo tipo vengono costituiti quasi esclusivamente per dare una sensazione di attivismo rispetto a qualche problema da risolvere e per coprire le reali incapacità di offrire risposte concrete. Senza contare che in genere si sovrappongono a strutture esistenti con gli stessi compiti, contribuendo ad aumentare la confusione organizzativa, oltre che la cacofonia delle voci che sentenziano sui vari argomenti in discussione. Certo è molto più facile creare un comitato, darne l’annuncio come se ciò corrispondesse automaticamente alla soluzione di un problema, piuttosto che impegnarsi nel duro e oscuro lavoro di individuare, responsabilizzare e motivare i talenti all’interno delle amministrazioni esistenti.
Una triste riflessione in questo senso mi è stata stimolata dall’attuale situazione di emergenza, che purtroppo sta rivelando tutti i limiti non solo della nostra mediocre classe politica, ma anche degli “esperti” di riferimento. Parafrasando una massima di Einstein, oserei dire su base empirica che la qualità di uno scienziato è inversamente proporzionale al numero delle interviste che rilascia e al quadrato del numero delle apparizioni nei talk show.
Cominciamo dall’inizio. Un ottimo manager viene nominato commissario straordinario per l’emergenza epidemiologica Covid-19: ma non c’erano già la protezione civile (con un comitato tecnico-scientifico costituito ad hoc, forte di 12 componenti e un numero imprecisato di consulenti) e il Ministero della salute? E le Regioni? Come è possibile pensare che mettere in campo un altro soggetto con competenze sovrapponibili giovi all’efficienza, e non serva invece solo per dimostrare al grande pubblico che “si è fatto qualcosa”? Per inciso, se si va sul sito del governo si trovano oltre 30 “commissari straordinari” e qualche decina di commissioni: che disgraziato Paese deve essere questo per aver bisogno, oltre che della enorme macchina amministrativa dello Stato, anche di tutte queste gestioni straordinarie (e tutto ciò senza contare le numerosissime “Authority”, alcune delle quali completamente inutili)! In realtà la proliferazione di comitati e commissioni ha come unico risultato la de-responsabilizzazione delle amministrazioni, oltre che la creazione di una cortina di fumo per coprire inefficienze e carenze gestionali.
A fine marzo parte la “Task force scuole e didattica a distanza” del Ministero dell’istruzione, con un numero imprecisato ma elevatissimo di componenti, probabilmente vicino al centinaio di unità. Quasi altrettanto numerosa è la “Task force data drive” con 74 componenti, istituita il 31 marzo dal Ministro all’Innovazione tecnologica. Inoltre il 15 aprile si è riunita per la prima volta la “Task force donne per un nuovo Rinascimento”, 13 componenti, voluta dal Ministro per le pari opportunità con il compito di elaborare idee e proposte per il rilancio sociale, culturale ed economico dell’Italia dopo l’emergenza epidemiologica.
Infine, il 10 aprile il Presidente Conte nomina un comitato “con il compito di elaborare e proporre al Presidente del Consiglio misure necessarie per fronteggiare l’emergenza epidemiologica COVID-19, nonché per la ripresa graduale nei diversi settori delle attività sociali, economiche e produttive anche attraverso l’individuazione di nuovi modelli organizzativi e relazionali, che tengano conto delle esigenze di contenimento e prevenzione dell’emergenza”. Un compito, come direbbe Dante, da far tremar le vene e i polsi.
Il comitato è composto da 19 persone (coincidenza?) e viene menzionato spesso come “task force per la fase 2”, anche se della task force non ha nulla. Task force è un termine di origine militare che indica una unità operativa formata per uno specifico compito da portare a termine in tempi definiti. Normalmente viene designato dai vertici il/la responsabile, e a lei/lui viene delegata la scelta delle persone e delle risorse da coinvolgere, compatibilmente con le disponibilità di sistema e per il tempo strettamente necessario, in modo esclusivo ed estremamente focalizzato sul “task”.
Nel caso specifico non si capiscono le scelte fatte. Indubbiamente si tratta di persone eccellenti, ma forse non adatte al profilo di missione. Un esempio su tutti è quello del Presidente della Cassa Depositi e Prestiti: basta fare un giro in rete per vedere che oltre a tale incarico è anche presidente di FILA SpA, fa parte del Consiglio di amministrazione di Intesa SanPaolo, Avio, Willis Tower Watson e della Fondazione AIRC, è Advisor per l’Italia del fondo di private equity Permira e della Società di Consulenza Partners SpA, è nella Giunta di Assonime, insegna alla Bocconi e alla Cà Foscari. Speriamo gli rimanga un po’ di tempo per la task force.
La questione potrebbe anche essere irrilevante, dato che un consesso di 19 persone non può comunque avere nulla di operativo: più adatto nei casi in cui sia necessario comporre interessi diversi (mi auguro che non sia questa la fattispecie) che quando si devono rapidamente ed efficacemente suggerire decisioni in condizioni di emergenza.
La relazione tra il numero di componenti di un comitato e la sua efficienza è stata illustrata da Cyril Northcote Parkinson in un famoso libro del 1957 (Parkinson’s Law), di cui consiglio la lettura: nonostante l’età, molti aspetti trattati sono ancora attuali e lo stile è ironico e divertente. La Legge di Parkinson spiega come un’organizzazione cresca, indipendentemente dall’aumento o diminuzione della quantità di lavoro che deve svolgere, per effetto di meccanismi gerarchici e di anomalie organizzative. Può anche succedere che le dimensioni diminuiscano in alcuni comparti, ma questo avviene, in genere, senza intervenire sulla stratificazione e sovrapposizione di funzioni inutili e ingombranti. Secondo Gianfranco Livraghi (Il potere della stupidità, 2004) questa bizzarra mescolanza di bulimia e anoressia è uno dei malanni più gravi che affliggono le organizzazioni (pubbliche o private), specialmente le più grandi. Parkinson ci propone anche The Law of Delay: se un problema è serio, urgente, impegnativo e complesso si tende a delegarlo, magari con la scusa di ulteriori approfondimenti. E cosa c’è di meglio per questo di un comitato? E cosa importa se poi il ritardo diventa irrimediabile?
Nel terzo capitolo Parkinson introduce una nuova disciplina: la “comitologia”, da non confondere con la “comitatologia” che, ci crediate o no, fa parte della terminologia della Commissione Europea (cito testualmente dal sito: La comitatologia si riferisce a una serie di procedure, comprese le riunioni dei comitati rappresentativi, con cui i paesi dell’UE possono esprimere la loro opinione sugli atti di esecuzione).
Parkinson dimostra empiricamente che all’aumentare del numero dei componenti di un comitato si ha progressivamente non solo una perdita di efficienza (meno decisioni nell’unità di tempo), ma anche una diminuzione della qualità delle decisioni stesse. Parkinson afferma che il numero ottimale è cinque, oltre il quale (egli sostiene) cominciano a svilupparsi effetti perversi: dalla difficoltà di stabilire la data delle riunioni, alla “sindrome della prima donna” (che ovviamente richiede un pubblico un po’ numeroso), alla formazione di varie fazioni interne, alla rappresentanza di interessi troppo minuti (che finisce di solito con il comportare pressioni per un ulteriore aumento dei componenti). Sostiene Parkinson che “il ciclo vitale del comitato ha una importanza tale per la nostra conoscenza dei problemi d’attualità, che c’è da meravigliarsi del fatto che così scarsa attenzione sia stata dedicata alla scienza comitologica. Tale scienza si basa su un principio primo ed elementarissimo: ogni comitato, ogni consiglio, ha carattere organico e non meccanico; esso non è una struttura, ma una pianta. Esso mette radici e cresce, fiorisce, appassisce e muore, spargendo il seme da cui a loro volta fioriranno altri consigli, altri comitati. Solo coloro che tengono in mente tale principio possono sperare di procedere nella comprensione della struttura e della storia del governo moderno.”
Pur essendo chiaro che il numero ottimale dei membri di un comitato varia da 5 a 9, l’osservazione insegna che è molto difficile contenerne la crescita, per alcuni membri a motivo della loro competenza specifica, per altri – e sono i più – perché darebbero troppo fastidio restando fuori. Si può vincere la loro opposizione solo compromettendoli nelle decisioni che si prendono. Man mano che essi entrano (e si calmano) il numero totale dei membri cresce di solito da dieci a venti. In questa fase già si presentano notevoli svantaggi.
Lo svantaggio più evidente è la difficoltà di riunire tante persone, non necessariamente nello stesso posto, ma certamente allo stesso giorno e alla stessa ora. Inoltre, al di là delle buone intenzioni, diventa impossibile garantire la riservatezza e, ammesso che il comitato provi a lavorare, si farà intensa la pressione di gruppi esterni che insistono per avere nuovi membri che li rappresentino. Si formano poi fazioni interne le quali cercano di acquistare forza reclutando elementi nuovi. Si raggiunge e si sorpassa il traguardo dei venti. Può anche succedere che le persone migliori trovino ingiustificata la partecipazione al comitato rispetto al tempo richiesto per la produzione di risultati e preferiscano dedicarsi ad altre attività che ritengono più produttive. Il comitato finisce così per l’avvitarsi in una spirale di “selezione avversa” per cui all’aumento del numero corrisponde anche una diminuzione della qualità dei membri: partecipano solo quelli con forti interessi diretti e/o con meno opportunità alternative.
Comunque, Parkinson propone (ironicamente) una formula per calcolare il livello di inefficienza di un comitato, che mi sono permesso di rivisitare. Non sarà male premettere che le ipotesi alla base del calcolo presuppongono clima temperato, poltrone di cuoio e musica rilassante nel sottofondo. Ciò premesso, ecco la formula per il calcolo del “coefficiente di inefficienza” X:
Nella formula m indica il numero medio dei membri presenti; n il numero dei membri che subiscono l’influenza di pressioni esterne; a il tasso di colesterolo del membro più giovane; d la distanza, espressa in centimetri, fra i due membri che seggono più lontani l’uno dall’altro o, nel caso di riunione telematica, l’ampiezza di banda della connessione del membro tecnologicamente più scarso; p la pazienza del presidente, misurata secondo la scala Peabody; b la pressione sanguigna media dei tre membri più anziani, rilevata poco prima della riunione e y il tasso alcolemico medio del comitato.
Parkinson presenta anche un’interessante analisi storica, in cui dimostra come all’aumento del numero dei membri di gabinetto in alcuni Paesi corrisponda un declino di prestigio ed influenza: causa o effetto che sia, i dati sembrano provare la tesi. Sulla base di questa analisi Parkinson si spinge anche ad affermare che un altro “numero aureo” per la dimensione di un comitato possa essere otto: infatti, alla data di pubblicazione del suo libro è l’unico numero che tutti gli stati esistenti avevano unanimemente evitato come numerosità del gabinetto. Esistono anche recenti interessanti studi statistici che peraltro confermano le intuizioni di Parkinson.
Mi auguro che, per una volta e nell’interesse di tutti, la teoria e l’evidenza empirica vengano smentite dai fatti. Ma sarà dura. In bocca al lupo, Dr. Colao!