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L’arsenale di Venezia

Una modernissima fabbrica di tanti secoli fa

Quale nell’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani, / che navigar non ponno; in quella vece / chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più viaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi ed altri volge sarte; / chi terzeruolo e chi arimon rintoppa (Inf. XXI 7 – 14)

Dante aveva visitato l’Arsenale di Venezia probabilmente dopo i grandi lavori di ampliamento del vecchio arsenale, costruito nel 1104, avvenuti durante i primi anni del 1300; ne era rimasto così impressionato da porlo come termine di paragone nell’ottavo cerchio della quinta bolgia infernale, laddove i barattieri, coloro cioè che avevano fatto illecito commercio di cose pubbliche, vengono immersi nella pece bollente. Le tre terzine offrono un quadro assai vivo e movimentato dell’attività che nell’Arsenale si svolgeva: tanti uomini intenti ciascuno al proprio lavoro, specializzati in quasi
tutti i campi della fabbricazione e manutenzione delle navi.
Tale frenetica attività era, in realtà, comune a
tutti gli altri arsenali delle grandi città portuali e marittime, eppure Venezia seppe sempre rivaleggiare e prevalere nei confronti di tutto il mondo antico. Ciò che ci interessa analizzare in questo articolo è, infatti, la sua originale struttura produttiva e, soprattutto, l’organizzazione lavorativa che la rende ancora oggi, alla luce delle odierne conquiste del mondo del lavoro, un esempio unico.
L’origine dell’Arsenale di Venezia si fa risalire al 1104 con il Doge Ordelafo Faliero, nella zona sita tra i Conventuali di San Pietro del Castello e la parrocchia di San Giovanni in Dragone. L’ubicazione era stata dettata non solo da motivi strategici (zona attaccabile solo dal mare e facilmente difendibile da terra), ma anche economici (zona di arrivo del legname del Cadore). Agli inizi del Trecento la “darsena vecchia” fu ampliata con l’area del lago di San Daniele, divenendo la “darsena nuova” e successivamente, grazie all’annessione della zona di Stradal Campagna, iniziò ad essere chiamata “darsena nuovissima” anche per l’allestimento di fonderie, officina dei remi, corderia della Tana, un’officina per le artiglierie, la fabbricazione di polvere da sparo e perfino forni pubblici con magazzini di cereali per produrre il “biscotto”, la galletta secca che fungeva da cibo della ciurma imbarcata.
Dopo la battaglia di Lepanto furono realizzate anche alcune abitazioni per le maestranze e due poderose porte, una di terra, a mo’ di arco trionfale sormontato dal leone di S. Marco, e una di mare con due imponenti torri.
Per meglio valutare la filosofia economica e industriale del concetto dell’Arsenale Veneziano prendiamo ad esempio la corderia, che non produceva soltanto corde, ma anche vele e stoppa. La canapa era, alla pari del legno, il prodotto strategico per l’industria navale di allora, ma era soggetta a importanti variazioni di prezzo dovute ai raccolti e all’importazione del prodotto finito lavorato altrove. La pianta (Cannabis sativa), era prodotta soprattutto in Asia lungo le pianure del Don specialmente nel territorio del delta sul Mar d’Azov: da lì Venezia importava la materia prima (oltre che da coltivazioni sulla terraferma, in Veneto, in Emilia e nelle Marche). La materia prima veniva lavorata nell’Arsenale, nella corderia della Tana con metodi originali in grado di garantire forniture regolari a costi contenuti. Il prodotto finito usciva da particolari fori di diverso diametro e veniva tagliato alla lunghezza desiderata, evitando sprechi di un materiale allora costosissimo. Analogo discorso può essere fatto per il legname, che arrivava grezzo all’Arsenale e veniva poi lavorato in loco secondo le necessità con una grande economia.
Ci troviamo quindi di fronte ad un prototipo di “industria accentrata”, cioè di una attività di trasformazione svolta da lavoratori specializzati, dietro compenso pattuito, in uno stesso luogo, sotto una precisa direzione, con controllo sulla manodopera, ottimizzazione degli standard operativi, utilizzo di tecnologie avanzate (talora coperte da riserbo o segreto), stante l’unicità del prodotto da realizzare.
Un’altra peculiarità dell’arsenale, anch’essa attuale, era quella di far parte del tessuto urbano e di caratterizzare un preciso sestiere della città; la superficie si estendeva su 26 ettari e impiegò, nei momenti di maggiore attività, fino a 4500 lavoratori, circa i 5% della forza lavoro attiva di Venezia.
Ma se moderna era la fabbrica altrettanto interessante e attuale fu la struttura del rapporto con gli operai iscritti nel libro delle Maestranze dell’Arsenale, che da semplici prestatori d’opera, divennero via via una “casta” elitaria, strutturale al potere della Serenissima. Agli albori dell’Arsenale esso poteva essere identificato come un qualsiasi altro cantiere come tutti gli altri a Venezia, solamente non privato, ma pubblico. Carpentieri e calafati venivano pagati a giornata, nel pubblico come nel privato per realizzare o riparare le navi. Non vi era alcun modello lavorativo e ciascuno costruiva le imbarcazioni secondo l’esperienza tramandata dalle precedenti generazioni; così come, dalle precedenti generazioni, ciascuno aveva ereditato i propri arnesi da lavoro ed era iscritto a una specifica corporazione che lo tutelava fissando, tra l’altro, il costo della mano d’opera. Si lavorava se c’erano commesse, altrimenti si cercava lavoro altrove. Fu verso la seconda metà del Duecento che la Repubblica Serenissima intese dare una diversa organizzazione alle maestranze dell’importante complesso.
«Ci troviamo quindi di fronte a un prototipo di industria accentrata, cioè di una attività di trasformazione svolta da lavoratori specializzati, dietro compenso pattuito, in uno stesso luogo, sotto una precisa direzione, con controllo sulla manodopera, ottimizzazione degli standard operativi, utilizzo di tecnologie avanzate.»

I lavoratori vennero inseriti in un elenco, il “libro delle Maestranze dell’Arsenale”, con l’obbligo di presentarsi e lavorare per lo Stato qualora fosse richiesto ma anche con la possibilità di prestare la loro opera altrove, rimanendo membri delle corporazioni di provenienza e godendone i vantaggi. Nel Trecento il 75% del personale era
composto da tre importanti e potenti categorie: i carpentieri, i remieri o fabbricanti di remi e i calafati cioè coloro che con stoppa e pece assicuravano l’impermeabilizzazione della nave. I rimanenti lavoratori (cordai, fabbri, fonditori di artiglierie, fabbricanti di polvere da sparo, panettieri) erano addetti all’armamento delle navi. Tutti i mastri dei tre principali mestieri venivano pagati, quando richiesti dell’autorità dell’Arsenale, a giornata per un compenso giornaliero inferiore a quello di mercato permettendo alla Serenissima di mobilitare, all’occorrenza, grande ed efficiente forza lavoro. Nei giorni in cui non vi fosse bisogno di tutti o di parte degli operai, essi potevano lavorare negli squeri privati, ma remieri e carpentieri avevano diritto a presentarsi all’arsenale ed essere pagati anche nei giorni in cui non avessero trovato lavoro altrove. I calafati, corporazione meno potente, godevano della metà del salario e gli altri lavoratori avevano diritto a compensi nei giorni di inattività di minore entità. Insomma, nell’Arsenale, era stata istituita una “cassa integrazione” ante litteram. Ma vi era anche la cassa mutua. In caso di malattia, infatti, gli operai venivano curati dai medici dell’Arsenale, e percepivano una più o meno modesta indennità anticipando, in modo inconsapevole, il sistema sanitario odierno.
Le favorevoli condizioni di vita e di lavoro
degli operai dell’Arsenale tuttavia, portarono inevitabilmente a degli abusi, quali il saccheggio di materiale, assenteismo o scarso rendimento. Il Senato della Serenissima corse ai ripari con regole ferree; l’iscrizione al libro delle maestranze venne rigorosamente selezionata, vennero istituiti “appontatori e despontatori” che controllavano presenze e impegno di lavoro e “capitani” che avevano la custodia dell’Arsenale, controllavano i furti e le eventuali fughe di notizie tecniche. In questi casi si arrivò a comminare pene severissime ai colpevoli che potevano giungere all’esilio o addirittura alla pena capitale qualora si ravvisasse lo spionaggio industriale. Per garantire un maggior controllo del personale gli operai vennero messi sotto il comando del “proto”, colui che sapeva disegnare i profili dalla nave e realizzarla e divisi in squadre omogenee. A ogni squadra venne assegnato un dock di costruzione con la possibilità da parte delle autorità dell’Arsenale di verificare lo stato di avanzamento dei lavori. I proto erano incaricati di suddividere i lavoratori nei vari reparti, controllare la qualità delle materie prime (legni e cordami) e provvedere alla standardizzazione delle fasi del processo di costruzione. Rispetto al passato ai proto fu chiesto di insegnare il mestiere agli apprendisti (l’odierno stage) e furono sottoposti a controlli severi che prevedevano una loro conferma ogni 5 anni in base allo zelo e alle capacità dimostrate.
Dunque, in breve tempo, l’accozzaglia di artigiani autonomi, individualisti e senza disciplina che avevano impressionato Dante, divenne una corporazione di militari–operai, con un elevato senso di appartenenza, con compiti anche di rappresentanza, privilegiati (potevano lasciare il posto di lavoro al figlio), ma rigidamente inquadrati come, appunto, un vero e proprio corpo militare.
Avevano compiti di sorveglianza durante le sedute del Maggior Consiglio, compiti di ronda nottetempo della città, formavano l’equipaggio del Bucintoro durante la cerimonia dello “sposalizio del mare” e costituivano perfino il corpo dei pompieri. L’Arsenale aveva indubbiamente costi elevatissimi per le casse dello Stato ma grazie ai processi produttivi, all’organizzazione del lavoro, alle maestranze, in caso di bisogno, fu in grado di varare una galera perfettamente armata in una giornata… come i cantieri americani della seconda guerra mondiale con le navi liberty… tre secoli e mezzo dopo.