scienza economica o scienza antropologica?
Per lunghissimo tempo, dagli albori della disciplina fino almeno a tutti gli anni Ottanta, al marketing è stato attribuito un carattere esclusivamente economico: come dimostrato dal significato stesso (marketing letteralmente significa “collocare sul mercato”) l’unico obiettivo da raggiungere era il maggior piazzamento possibile di prodotti e il conseguente profitto. Successivamente, in seguito anche all’acquisizione da parte delle imprese del ruolo fondamentale svolto dalla comunicazione, il marketing ha cominciato a guardare con crescente curiosità e interesse a discipline come la sociologia, la psicologia, l’antropologia e così via.
Oggi la commistione è ancora più ardita ed efficace e il marketing si è aperto a tutto il complesso e seducente mondo delle neuroscienze dando vita al marketing comportamentale e/o emozionale. Quest’ultimo in buona sostanza si propone di raggiungere il suo utente finale non preoccupandosi più della sua collocazione spazio temporale (sei qui, in questo momento e quindi ti bombardo di messaggi pubblicitari) bensì del suo stato d’animo e dei suoi più reconditi desideri (voglio capire cosa ti piace, cosa potrebbe gratificarti e vendertelo). Molti sono i mezzi, soprattutto informatici, con cui le imprese possono conoscere i gusti dei propri utenti: sondaggi on line e cookie sono sicuramente i più usati.
Ma in questo contesto ci interessa analizzare la sfera emozionale più che gli espedienti utilizzati per attivarla tenendo, inoltre, presente che l’unione dell’aspetto meramente economico con quello squisitamente antropologico, ha portato il marketing a considerare il mercato come un insieme di persone, di consumattori e non semplici consumatori. Sono sempre più numerosi, infatti, gli economisti che invitano a considerare il consumatore non solo come un portatore sano di bisogni ma anche di emozioni, valori, sentimenti che non possono essere ritenuti indipendenti dal suo stesso comportamento economico.
Il profitto non può più essere il solo obiettivo che un’impresa si pone: i nuovi compratori, soprattutto in periodi di crisi come quello attuale, non hanno bisogno del semplice prodotto ma di sentirsi tutelati, di poter dare fiducia all’azienda e alla sua linea di prodotti e l’azienda deve imparare a fare i conti con le leve irrazionali dell’acquisto.
Proprio così! È stato ormai ampiamente dimostrato come nell’atto dell’acquisto il compratore sia il più delle volte soggetto all’azione di emozioni e aspettative assolutamente irrazionali. Ma non si tratta di un’irrazionalità insensata o casuale bensì prevedibile e sistematica: siamo irrazionali sempre nello stesso modo e attuando le medesime dinamiche. Molte volte, ad esempio, non acquistiamo un prodotto per le sue caratteristiche oggettive ma per le convinzioni che abbiamo riguardo a esso. La sua provenienza, i materiali con cui è fatto, gli aneddoti sulla sua creazione, sono elementi che impattano sulla nostra capacità di fruizione e la modificano in modo sostanziale. Pensiamo all’acquisto di una bottiglia di vino: un esperto potrà partire da elementi oggettivi quali il territorio, la vendemmia, la raccolta, il metodo di lavorazione e così via ma un compratore medio si limiterà a leggere l’etichetta. Un esperimento condotto qualche anno fa ha dimostrato come, in presenza di due vini, uno pregiato e costoso e uno più modesto, ai quali erano state invertite le etichette, i consumatori abbiano trovato molto più gradevole il vino all’interno della bottiglia costosa. Questo a dimostrare che in mancanza di competenze specifiche e reali dati conoscitivi, le nostre convinzioni modificano la percezione stessa del sapore del vino. Ecco perché molte aziende investono sempre di più nella creazione, prima, e nella comunicazione, poi, di vere e proprie storie di prodotto. Raccontare una storia, creare un vero e proprio vissuto, può modificare in modo sesibile la percezione del valore del prodotto. Pensiamo a quanto abbia influito nelle vendite di un noto caffè la presenza, nella storia pubblicitaria, di due personaggi tanto amati dal pubblico come Bonolis e Laurenti, che non a caso hanno riproposto negli spot le stesse dinamiche agite solitamente nelle proprie trasmissioni televisive.
Oltre al racconto molto importante è, senza dubbio, il linguaggio. Quest’ultimo, definito non a caso polisensoriale, deve riuscire a sollecitare in modo strategico tutti e cinque i sensi del consumatore e non più semplicemente udito e vista. Come farlo? Anzitutto attraverso il linguaggio sinestetico ossia capace di assegnare qualità sensoriali a oggetti (un cibo dal sapore pungente, un colore morbido, un sapore vellutato, ecc.) e attraverso vere e proprie stimolazioni sensoriali come l’immissione di determinati profumi nei punti vendita o di una musica particolarmente melodica negli spot pubblicitari.
Recenti studi dimostrano come quello dell’immissione degli odori sia un trend in grande crescita e di come alcuni odori più di altri possano essere congeniali. Ad esempio il profumo di caffè fresco o di torta fatta in casa, risultano particolarmente adatti per persone che devono convincere potenziali acquirenti (ad esempio gli agenti immobiliari), mentre i profumi legati al mondo naturale (lavanda, glicine, edera) sono particolarmente usati in luoghi, come i grandi magazzini, dove si vuole cercare di rallentare l’andatura dei clienti perché possano dedicare più tempo agli acquisti. Avvolto da profumi rassicuranti, cullato da musiche rilassanti il consumatore è ormai pronto a lasciarsi andare alla parte più irrazionale di sé e fortemente convinto che il prodotto che ha di fronte non sia solo utile ma addirittura irrinunciabile (devo averlo a tutti costi!) e insostituibile (voglio solo ed esclusivamente quello!).
Il desiderio indotto dalla percezione dell’esigenza amplifica a sua volta il fattore della desiderabilità arrivando a portare il consumatore a vere e proprie esperienze di consumo… ma questa è la storia del marketing esperienziale, che vi racconterò la prossima volta.
Concludo con le parole di Henry Cartier-Bresson, considerato da molti il padre del fotogiornalismo: «È solo un’illusione che le foto si facciano con la macchina. In realtà si fanno con gli occhi, con il cuore, con la testa.»
E questo il mondo del marketing lo ha capito molto tempo fa.